Franco Bonisolli
l'ultima estate
Ricordando il
tenore italiano, famoso nel mondo come “il re del do di
petto”, scomparso il 30 ottobre del 2003 a soli 65 anni.
Foto e ricordi inediti.
02/11/2009
Di Renzo Allegri
Foto di Nicola Allegri
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Il tenore Franco Bonisolli con la seconda moglie, Agnewska Sobocinska, mezzosoprano polacca. |
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Bonisolli gioca con il suo cane. |
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Bonisolli in atteggiamento scherzoso e allegro, a cavallo della sua moto. |
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Bonisolli e la moglie nel giardino, mentre studiano uno spartito. |
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Bonisolli seduto sul muretto di cinta del suo giardino, con alle spalle il meraviglioso panorama dei colli romani. |
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Bonisolli, con la sua auto preferita |
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Il 30 di ottobre
2003, moriva il
tenore Franco
Bonisolli. Gli
artisti hanno il
privilegio di essere
immortali. Per la
loro arte e per
l’amore dei loro
ammiratori. Restano
vivi nel ricordo e
nell’affetto. Nel
nostro tempo, grazie
alle tecnologie,
questa loro
presenza, acquista
anche una certa
“fisicità”, almeno
virtuale. Basta
andare su Internet,
cliccare sul nome
dell’artista ed è
possibile trovare
delle fotografie,
dei filmati, delle
registrazioni, che
ci permettono di
“rivedere” il nostro
beniamino in piena
attività.
Franco Bonisolli era
un personaggio
particolare.
Carattere focoso,
sanguigno, pronto a
infiammarsi, a
polemizzare, a
litigare. Un
atteggiamento il suo
che, in varie
occasioni, ha
provocato
risentimenti.
Era un duro, un
indomabile, un
caparbio. <<Con me
stesso sono umile
perché so che di
fronte all’universo
sono un nulla>>, mi
disse un giorno.
<<Ma quando un
sistema commerciale
vuole sfruttarmi,
vuole mettermi
sotto, io divento
arrogante, ribelle,
cattivo. Prova ad
accarezzare un gatto
contropelo, se sei
capace. Ho letto
certi libri del
periodo di Cristo in
Palestina. C’era un
movimento
politico-religioso i
cui aderenti si
chiamavano “Zeloti”.
Erano persone con un
ossessionato senso
di libertà. Ecco, io
sono uno zelota. Io
sono l’espressione
della libertà
assoluta e mi sento
un handicappato nei
confronti degli
schemi sociali, che
non mi
interessano>>.
Con un carattere e
una mentalità così
decisa non era
facile andare
d’accordo. Nel mondo
dello spettacolo
Bonisolli si era
urtato un po’ con
tutti. Molti
critici, quando
scrivevano di lui,
lo chiamavano
“Bonisolli il
pazzo”. Negli
ambienti dei teatri
circolavano i
racconti più
inverosimili sul suo
conto. Molti erano
inventati, ma
qualcuno aveva
radici. Si diceva,
per esempio, che un
giorno cantando
l’aria dalla
Turandot
“Principessa altera
ti voglio ardente
d’amor “, abbia
inserito
arbitrariamente
quattro “do” acuti,
e ai critici che lo
rimproveravano per
l’estemporanea
invenzione rispose:
“La pausa è scritta
da Puccini”. Una
volta a Barcellona
ebbe la sventura di
rompere il “do”
finale nella
cabaletta “Di quella
pira”. Si arrabbiò
con se stesso, gettò
la spada sul
palcoscenico e
quando il sipario si
riaprì a fine atto
per gli applausi, si
avvicinò al
proscenio e attaccò
quel “do” che aveva
mancato, tenendolo
lungo,
interminabile, per
dimostrare che
quanto accaduto era
stato solo un banale
incidente, ma lui
l’acuto ce l’aveva
in gola. In un’altra
occasione, sempre a
Barcellona, i
dirigenti del Teatro
Liceo, per
difficoltà
economiche, non gli
avevano pagato tre
recite di
“Trovatore” e un
Recital. Qualche
settimana dopo,
cantando a San
Francisco con
Montserrat Caballè,
fece irruzione nel
camerino del soprano
cercando di
sequestrarle il
cachet. Diceva che
quei soldi
spettavano a lui
perchè il Liceo di
Barcellona gli
doveva del denaro ed
essendo lei,
Montserrat Caballé,
di Barcellona doveva
pagare. Si dice
anche che per un
certo periodo abbia
portato al dito un
vistoso anello dove
affermava di tenere
dell’antidoto per il
veleno che
Pavarotti, Domingo,
Carreras e Aragall
volevano
somministragli.
Leggende
metropolitane,
naturalmente. Però è
indiscutibile che
quando c’era lui in
un teatro,
polarizzava
l’attenzione del
pubblico,
sottraendola anche
ai colleghbi più
famosi.
Un caso emblematico,
che ho seguito
anch’io, si verificò
all’Arena di Verona
nella stagione del
1985. Erano presenti
dodici tenori,
impegnati nei vari
spettacoli e
concerti: Luciano
Pavarotti, Josè
Carreras, Giuseppe
Giacomini, Veriano
Luchetti. Nicola
Martinucci, Nunzio
Todisco, Luis Lima,
Giuliano Ciannella,
Dalmacio Gonzales,
Gaetano Scano, Mario
Malagnini e Franco
Bonisolli.
Con quelle dodici
superstar, l'Arena
era diventata una
polveriera. Non
perché quegli
artisti si odiassero
sul piano umano, ma
perché erano, per
forza di cose, in
competizione. Per
emergere, dovevano,
come i gladiatori
dell'antica Roma,
eliminare
l'avversario. Ogni
sera, il
protagonista di
turno doveva
battersi all'ultimo
sangue: non soltanto
contro le grandi
difficoltà tecniche
e artistiche del
ruolo che
interpretava, ma
contro la folla,
contro l'ombra dei
colleghi che avevano
cantato prima di lui
o che avrebbero
cantato il giorno
successivo.
Era un gioco alla
roulette russa. I
nervi si logoravano,
le tensioni erano
elettriche; ogni
tanto correvano voci
di scenate,
bisticci, minacce.
Uno dei protagonisti
di quei "duelli di
fuoco" era proprio
Bonisolli.
Interpretava Manrico
nel Trovatore e
Radames in Aida. Il
pubblico lo adorava.
Ogni sera, dopo che
Bonisolli aveva
terminato il
celeberrimo brano
'Di quella pira", la
folla scattava in
piedi con un boato
di applausi e grida
degne di una partita
di calcio. Alla
"prima" erano
accorsi i
carabinieri e i
vigili spaventati:
temevano fosse
accaduta una
sciagura. Il bis
della cabaletta era
d'obbligo. Guai non
concederlo, poteva
scoppiare una
rivoluzione. Alla
prima
rappresentazione, il
direttore
d'orchestra, Reynald
Giovaninetti,
contrario ai bis,
non aveva ascoltato
le richieste del
pubblico e se ne era
andato nel camerino,
ma la gente, con
grida e minacce, lo
aveva costretto a
tornare sul podio in
modo che Bonisolli
potesse ripetere la
celebre cabaletta.
Certo, non sono
comportamenti da
esaltare, ma fanno
comprendere quale
carisma sprigionava
Bonisolli e quale
magico incantesimo
era in grado di
trasmettere alla
folla con i suoi
acuti. I colleghi
sopportavano e
criticavano. Ma
nessuno voleva male
a Franco Bonisolli.
Era un “burbero” in
superficie.
Conoscendolo bene,
ci si trovava di
fronte a un
personaggio ben
diverso, umano,
ricco di interessi,
amante della
cultura, lettore di
libri dagli
argomenti più
svariati. Quel suo
fare baldanzoso, da
“spaccamondo”, era
sempre intriso di
tristezza, di
malinconia, di
infelicità, che sono
le caratteristiche
dell’artista
scontento di se
stesso e alla
ricerca di una
perfezione che non
troverà mai.
Comunque, Bonisolli
è stato e resta un
vero artista. “Il
tenore” per
eccellenza, sul
palcoscenico e nella
vita. Il tenore
eroico e drammatico,
con la voce potente,
squillante, con i
“do” di petto
spontanei e a
profusione. Ma non
si deve dimenticare
la varietà del suo
fraseggio, le
smorzature, la
dizione esemplare, i
declamati in zona
medio alta. Tenore
generoso,
esuberante, in grado
di affrontare ogni
tipo di spartito. Il
suo repertorio
spaziava da
Monteverdi a
Menotti, con un
numero
impressionante di
titoli eseguiti,
circa trecento. E a
tutte queste qualità
vocali si aggiunga
la presenza fisica.
Alto un metro e
novanta, aveva un
fisico atletico,
sguardo da attore,
eleganza estetica,
verve istrionica,
baldanza giovanile
innata, grinta
indomabile. Artista
affascinante e
personaggio
complesso. Ed è
stata la sua
complessità ha
ingenerare equivoci,
polemiche,
pregiudizi,
discussioni,
leggende, dicerie
che alla fine ne
hanno intorbidito
ingiustamente la
figura.
L’ultimo incontro
che ho avuto con lui
risale all’estate
del 2002, un anno
prima della sua
scomparsa. Si
trovava nella sua
villa, a Castelnuovo
di Porto, una
ventina di
chilometri fuori
Roma, in piena
campagna. Andai a
trovarlo per un
intervista che mi
era stata chiesta da
una rivista
giapponese, “Ongaku
No Tomo”, un mensile
prestigioso, che
tratta solo di
musica lirica e
sinfonica. In
Giappone si erano
ricordati che
Bonisolli era in
carriera da
quarant’anni.
Nessuno in Italia
aveva festeggiato
quella ricorrenza.
Franco mi accolse
con grande affetto.
Al telefono non gli
avevo detto la
ragione della mia
visita. Gliela
ripetei subito,
appena arrivato a
casa sua, pensando
che gli facesse
piacere che i
giapponesi avessero
ricordato quella
ricorrenza della sua
carriera. Invece no,
divenne subito
polemico. <<Macchè
ricorrenze, feste,
celebrazioni>>,
disse astioso. <<Io
non festeggio
niente, non voglio
avere a che fare con
cose del genere.
Diciamo che canto da
quarant’anni e
basta, tutto lì>>.
Era una giornata
splendida. Dal
giardino della villa
si godeva una vista
meravigliosa. Il
tenore era
nell’orto, occupato
a curare le piantine
di cipolle, con il
cane che gli stava
accanto.
<<Io vivo a
Montecarlo>>, disse.
<<Questa è la mia
casa di campagna. Ho
comperato del
terreno diversi anni
fa e poi ho
realizzato questa
casa su misura per
me. La mia prima
moglie, che era
americana e che è
scomparsa a causa di
un tumore sei anni
fa, mi diceva: “Se
arriva un conflitto
nucleare nessuno
toccherà Roma”, e
allora siamo venuti
qui. E’ una casa
voluta da me,
costruita secondo le
mie indicazioni e
quindi adatta alle
mie esigenze. Nel
giardino ho piantato
sette palme, perché
mi piace la
simbologia del
numero sette, che è
antichissima. Per
questa ragione ho
chiamato la casa
“Villa delle sette
palme”>>.
Ci sedemmo
all’ombra. C’era
anche la sua seconda
moglie, Agnewska
Sobocinska
mezzosoprano
polacca.
<< Ho sempre
lavorato contro
corrente>>, continuò
a dire il tenore.
<<Ho una sola dote,
l’immodestia. Sono
un arrogante, ma per
legittima difesa.
Aspiravo a
raggiungere una
verità artistica, se
mai esistesse, e mi
sono per questo
urtato contro tutti.
Potrei essere ancora
sulla breccia. Ho
qualità vocali da
vendere, ma sono
stufo di combattere
contro il potere
commerciale che
impone artisti
mediocri, e allora
me ne sto qui, al
sole, a curare
l’orto >>. Sorrise
triste e aggiunse:
<<Alla fine bisogna
essere contenti. Io
sono stato molto
fortunato ed ho
raccolto anche più
di quello che ha
seminato>>.
Gli dissi di nuovo
che i giapponesi
desideravano una
lunga intervista per
ricordare i suoi 40
anni di carriera. Mi
guardò storto, e io
sorridevo perché
sapevo che poi, alla
fine, avrebbe
parlato di sé a
lungo, e anche con
soddisfazione. E
infatti fu così.
Quella fu una
lunghissima
intervista che
“Ongaku No Tomo”,
pubblicò in otto
pagine. Mai Franco
aveva parlato tanto
di se stesso. E fu
disponibile anche
per il servizio
fotografico, posando
sereno e gentile.
Furono quelle,
forse, le ultime
foto serene della
sua vita. Le foto di
quella sua ultima
estate. Era
contento, felice,
rilassato. Aveva 64
anni e nessuno
avrebbe mai pensato
che appena un anno
dopo se ne sarebbe
andato per sempre.
Ecco alcuni
significativi
stralci di quella
lunga intervista,
pubblicata in
Giappone. Molte
confidenze mai fatte
prima, molti
dettagli sconosciuti
della sua vita, è
interessi culturali
che nessuno avrebbe
immaginato che quel
tenore avesse.
<<Sono nato a
Roverto nel 1938>>,
cominciò a
raccontare Bonisolli.
<<Appartengo a una
famiglia di operai.
Eravamo allora
poveri, molto
poveri. A volte in
casa non c’era
niente da mangiare.
La povertà, la fame
sono state
"l'università" della
prima parte della
mia vita. E
l’infanzia è stata
un periodo di
autentica miseria.
Mia madre morì
giovanissima per gli
stenti della guerra.
Mio padre, rimasto
con quattro figli
maschi da crescere,
si trovò sperduto.
Ma non mi lamento
per quello che ho
sofferto. La vera
ricchezza di un
artista viene dalla
sofferenza»,
<<Quando hai
scoperto di avere
una voce
straordinaria?
<<Sono stati gli
altri a farmelo
capire. Da
ragazzino, cinque,
sei anni, andavo
sotto il tavolo e
facevo dei suoni,
specie di vocalizzi,
raggiungendo i
sovracuti, e vedevo
che la gente si
impressionava. In
seguito ho trovato
un pianista, Franco
Melotti, persona
molto simpatica, che
sono andato a
trovare anche
recentemente. E’
stato lui a dirmi
per primo: “Forse
hai una bella voce
di cantante lirico”.
Mi portò da una ex
soprano, che stava
da quelle parti,
aveva sposato un
farmacista, e lei mi
fece fare alcuni
vocalizzi, dicendo
che sì, potevo avere
un avvenire di
cantante lirico.
Provai a studiare,
ma non avevo i soldi
necessari.
<<Poiché mi piaceva
la musica, riuscii a
comperarmi una
vecchia chitarra e
imparai a suonarla
da solo. Per
guadagnare qualche
lira, soprattutto
d’estate, cantavo
canzonette per i
turisti, nei bar sul
lago di Garda. Una
sera, tra la gente
c’era un direttore
d’orchestra di
Visbaden. Dopo
avermi ascoltato, mi
avvicinò e mi chiese
dove avessi studiato
musica. “Non ho mai
studiato con
nessuno”, risposi.
Mi chiese se
conoscevo l’opera
lirica”. “No” dissi.
“Se studierai
diventerai un grande
tenore”, disse lui.
La sera successiva
mi accompagnò
all'Arena di Verona
ad assistere a una
rappresentazione di
“Carmen”. Quello per
me fu un vero colpo
di fulmine. Da quel
momento non ho
sognato altro che
diventare un
cantante lirico>>.
Nella tua famiglia
c’era qualcuno
appassionato di
lirica?
<<Nessuno, ma tutti
amavano la musica.
Mia madre aveva una
voce bellissima e
una emissione quasi
perfetta. Io la
ascoltavo incantato
quando cantava
facendo i lavori
domestici. Anche mio
padre aveva
un’ottima emissione,
con una voce da
basso di colore
molto gradevole. Io
e i miei tre
fratelli abbiamo
certamente ereditato
qualche cosa perché
tutti e quattro
siamo diventati
adulti con belle
voci di tenore, i
miei fratelli con
una voce addirittura
migliore della
mia>>.
<<Dopo la “Carmen”
ascoltata all’Arena
di Verona, che cosa
hai fatto?>>
<<Quell’esperienza
mi convinse che
“dovevo” a tutti i
costi studiare
musica. Cominciai a
darmi da fare
seriamente. Andai
dal maestro della
banda cittadina di
Rovereto a farmi
dare lezioni di
solfeggio. Poi
cercai un maestro di
canto a Trento, ne
trovai uno ma mi
resi presto conto
che non serviva a
niente, non era in
grado di aiutarmi.
<<Un amico mi parlò
del Concorso di
Canto “Adriano
Belli” di Spoleto,
che allora era molto
importante. Mi
sembrò che fosse
l’occasione per
uscire da Rovereto e
trovare la
possibilità di
studiare con persone
competenti. Perché
questo io cercavo
allora: poter
studiare. Non avevo
ambizioni di
successo, di
affermazioni, volevo
solo imparare.
<<Partecipai
all’edizione del
1951. Le selezioni
si tenevano a Roma.
Eravamo molti
concorrenti. Io ero
certamente il più
ignorante di tutti.
Conoscevo due
romanze: “Quando le
sere al placido” e
“Non piangere Liù”.
Arrivato il mio
turno, salii sul
palcoscenico e
cantai. Vinsi
ottenendo ciò che
desideravo: una
borsa di studio per
poter studiare. Mi
fermai a Roma e
preparai il debutto
cui avevo diritto
per aver vinto il
concorso. L’opera in
questione era “La
Rondine” di Puccini.
Ma gli
organizzatori, vista
la mia buona
volontà, mi diedero
anche un supplemento
di borsa di studio
per continuare a
studiare. Roma è
stata la città in
cui mi sono formato
come artista. A Roma
incontrai la mia
prima moglie, che
era americana,
bravissima
musicista. Divenne
la mia maestra e,
lavorando
tenacemente insieme,
abbiamo costruito la
mia carriera>>.
<<Quali opere
comprende il tuo
repertorio?
<<Nella mia carriera
ho cantato di tutto.
Ho cominciato come
tenore leggero. Ero
molto giovane, avevo
23 anni, la voce era
ancora piccola. Poi,
a poco a poco, con
il trascorrere degli
anni, sono passato
al repertorio
lirico, poi lirico
spinto e infine a
quello drammatico.
In pratica, il mio
repertorio spazia da
Monteverdi a
Giancarlo Menotti.
Ho eseguito molte
opere del periodo
barocco, diverse
opere di Mozart, di
Gluck.
Approssimativamente
ho cantato in circa
trecento opere.
Spesso ho cantato
opere tedesche in
lingua originale e
nessuno si accorgeva
che ero straniero.
Ho sempre avuto una
grande facilità per
le lingue>>.
Quali sono le tue
opere preferite?
<<Quelle che amo di
più sono quattro e
cominciano tutte e
quattro con la “T”:
Turandot, Trovatore,
Traviata e Tristano
e Isotta. Tra queste
la preferita è
Turandot. Nel mio
intimo sono rimasto
un bambino e adoro
le favole: Turandot
è una grande
bellissima favola.
Se poi vogliamo
allargare il numero
delle preferenze,
aggiungerei Otello,
Rigoletto, in
pratica tutte le
opere di Verdi e
diverse di Rossini.
Per un certo periodo
ho amato moltissimo
“La donna del lago”
e “Guglielmo Tell”>>.
<<Dicono che
“Guglielmo Tell” sia
la rovina dei
tenori: non hai
avuto paura ad
affrontarlo?
<<Per niente. L’ho
cantato una
cinquantina di
volte. A Firenze,
con la direzione di
Riccardo Muti, ho
fatto otto recite
cantando ogni altra
sera. C’era molta
tensione tra gli
addetti ai lavori e
non capivo perché.
In realtà tutti si
aspettavano che
crollassi. Il
direttore artistico,
maestro Rocchi, mi
disse: “Quando hai
finito le recite, ti
rivelerò una cosa
importante”. Al
termine del mio
impegno andai a
chiedergli che cosa
mi doveva rivelare.
“Nella storia della
lirica”, disse
“nessun tenore ha
mai fatto otto
recite di fila del
“Guglielmo Tell”
integrale”>>.
<<Molti ti chiamano
il “re degli
acuti”>>
<<E’ un’espressione
che non mi piace. I
tedeschi, che mi
vogliono bene,
dicono che sono “il
cavaliere degli
acuti”. Il termine
“Re” fa pensare a un
vecchio, mentre
“Cavaliere” ricorda
un giovane baldo e
forte. E poi, questa
storia degli acuti è
diventata una
trappola per me. E’
vero che io ho gli
acuti facili, non
trovo difficoltà ad
affrontarli, ma gli
altri, coloro che
non ce la fanno ad
arrampicarsi su
quelle vette, sono
invidiosi ed hanno
messo in atto di
tutto per
screditarmi. Dicono
che io invento gli
acuti anche dove non
ci sono, che ricorro
agli acuti per
stupire la gente,
che sono rozzo, che
non conosco la
musica, che confondo
il palcoscenico con
un ring. Gli acuti,
che sono un dono, mi
hanno praticamente
avvelenato la
carriera.
<<Io non sono un
fanatico degli
acuti. Me ne servo
perché li ritengo
utili allo
spettacolo. Gli
acuti sono parte
essenziale della
tradizione lirica.
La musica è
emozione, è
un'altalena di piani
e forti. L’acuto,
quando l'onda
musicale lo chiama,
è come una
liberazione,
un'esplosione
armoniosa di
sentimenti che dà
emozioni
Indimenticabili.
Giuseppe Verdi, in
una sua lettera.
scrisse: “Ben mi
guardo dal togliere
tutto quello che è
effetto dalla mia
opera perché la mia
musica è effetto,
effetto e ancora
effetto, signori
miei”
<<Garcia, il padre
di Maria Malibran ha
scritto un metodo di
canto dove dice che
nel canto tutto si
può fare ai fini
interpretativi.
Quando l’acuto viene
in funzione del
contenuto del testo,
il pubblico va
giustamente in
delirio, E’ una
reazione epidermica,
perché il senso del
grandioso lo
capiscono anche gli
ignoranti. E quando
scattano queste
emozioni istintive,
vuol dire che il
sentimento è
arrivato a cottura
giusta, che la
verità artistica è
raggiunta. Ma per
favore, smettiamo di
parlare di questo
argomento,
altrimenti mi
innervosisco e poi
perdo il sonno e
l’appetito>>.
<<Tu sei nato a
Rovereto, sei quindi
uno del nord: come
ti trovi qui a Roma,
cioè con la gente
del Sud?>>
<<Benissimo, ma
proprio perché non
ho alcun legame con
la terra dove sono
nato. Io mi sento un
abitante della
crosta terreste. Sto
bene dappertutto.
Sono un cittadino
del mondo. Un
apolide. Odio il
nazionalismo. Oggi
si parla molto di
Europa unita, ma è
da quando avevo
quindici anni che io
sogno l’universo
unito, non l’Europa
unita>>.
Sei soddisfatto
della scelta di aver
voluto fare il
cantante lirico?
<<E’ una professione
che mi ha dato tante
soddisfazioni. Ma se
tornassi indietro
non sceglierei più
di fare il cantante.
Trovo i testi dei
libretti idioti.
Aveva ragione
Bernard Show quando
diceva: “Tutte le
parole idiote che
non si usano nel
parlare comune, si
trovano nei libretti
dei melodrammi”>>.
Quali sono i tuoi
hobby?
<<Mi piacciono tante
cose. Sono
polivalente, vado in
tutte le direzioni.
Mi appassiono a
libri di scienza, di
geologia, amo
l’astrologia antica,
le scienze
esoteriche, lo
studio delle civiltà
antiche, del tempo
quando gli uomini
hanno cominciato a
formare le parole.
Trascorro gran parte
delle mie giornate a
leggere libri su
questi argomenti. E
mi appassiono.
Voglio approfondire.
Vado alla ricerca
delle opere
fondamentali che
stanno all’origine
delle grandi civiltà
e voglio leggere i
documenti antichi in
originale. Mi sono
messo quindi ha
studiare le lingue
antiche: greco,
latino, le lingue
dell’antica
Palestina, il
sanscrito, il pali,
l’ebraico. La Bibbia
io la leggo in
ebraico. Un giorno
mi appassionai al
“Libro dei morti”,
non quello egiziano,
ma quello tibetano e
allora sono andato
in Tibet e per due
anni ho studiato il
tibetano antico. Se
i miei colleghi mi
sentissero parlare
di queste cose,
direbbero che sono
pazzo per davvero.
Invece io mi
diverto. Quando
posso dedicarmi a
questi studi, mi
sento finalmente
realizzato. Al punto
che mi sento in pace
con il mondo. Non
provo più sentimenti
di rancore con
nessuno, neppure con
i miei nemici. Anzi,
posso dire che da
diverso tempo io non
ho più nemici. Sono
entrato in un’altra
dimensione>>.
<<I tuoi prossimi
impegni?>>
<<Concerti, qualche
opera, insegnamenti
a mia moglie, una
tournée in Giappone
e tante tante ore
con i miei libri
preferiti>>.
Spensi il
registratore e
ringraziai Franco
delle tante cose che
mi aveva raccontato.
Il tenore andò al
pozzo che aveva in
giardino e dal fondo
tirò sù una anguria
che aveva messo in
fresca proprio per
noi. La tagliò con
grande allegria e
volle che la
mangiassimo insieme.
Poi, con grande
disponibilità si
concesse al
fotografo
La luce del tramonto
pareva magica.
Guardavo il tenore
che si prestava
scherzoso alla
macchina
fotografica. Pensavo
alle sue ultime
parole. Ai curiosi e
straordinari
interessi che
coltivava, i libri,
le lingue antiche.
Nessuno mai avrebbe
immaginato che
Franco Bonisolli
avesse interessi del
genere. Invece,
parlando di questi
argomenti,
dimostrava un
entusiasmo
incredibile.
Pensavo, quindi, che
la sua vecchiaia
sarebbe stata lunga
e felice. Che,
quando avrebbe
smesso di cantare,
non si sarebbe
sentito “finito”,
“smarrito”, come in
genere succede agli
artisti. Avrebbe
dedicato il suo
tempo a quegli
interessi che tanto
lo prendevano. E,
vedendolo così
forte, allegro,
scherzoso, mai avrei
potuto immaginare
che il filo della
sua esistenza era
ormai alla fine. E
appena un anno dopo
si sarebbe
interrotto>>.
Renzo Allegri
WEBITALYNEWS
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N° 01/05 del 21 Gennaio 2005
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Direttore editoriale Marco
Camilli
Iscrizione R.O.C. n° 16223 del
25 Ottobre 2007 |
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