Franco Bonisolli l'ultima estate
Ricordando il tenore italiano, famoso nel mondo come “il re del do di petto”, scomparso il 30 ottobre del 2003 a soli 65 anni. Foto e ricordi inediti.
02/11/2009

Di Renzo Allegri
Foto di Nicola Allegri

   

Il tenore Franco Bonisolli con la seconda moglie, Agnewska Sobocinska, mezzosoprano polacca.

 

Bonisolli gioca con il suo cane.

 

 Bonisolli in atteggiamento scherzoso e allegro, a cavallo della sua moto.

         
         
   

 Bonisolli e la moglie nel giardino, mentre studiano uno spartito.

 

Bonisolli seduto sul muretto di cinta del suo giardino, con alle spalle il meraviglioso panorama dei colli romani.

 

Bonisolli, con la sua auto preferita

Il 30 di ottobre 2003, moriva il tenore Franco Bonisolli. Gli artisti hanno il privilegio di essere immortali. Per la loro arte e per l’amore dei loro ammiratori. Restano vivi nel ricordo e nell’affetto. Nel nostro tempo, grazie alle tecnologie, questa loro presenza, acquista anche una certa “fisicità”, almeno virtuale. Basta andare su Internet, cliccare sul nome dell’artista ed è possibile trovare delle fotografie, dei filmati, delle registrazioni, che ci permettono di “rivedere” il nostro beniamino in piena attività.
Franco Bonisolli era un personaggio particolare. Carattere focoso, sanguigno, pronto a infiammarsi, a polemizzare, a litigare. Un atteggiamento il suo che, in varie occasioni, ha provocato risentimenti.

Era un duro, un indomabile, un caparbio. <<Con me stesso sono umile perché so che di fronte all’universo sono un nulla>>, mi disse un giorno. <<Ma quando un sistema commerciale vuole sfruttarmi, vuole mettermi sotto, io divento arrogante, ribelle, cattivo. Prova ad accarezzare un gatto contropelo, se sei capace. Ho letto certi libri del periodo di Cristo in Palestina. C’era un movimento politico-religioso i cui aderenti si chiamavano “Zeloti”. Erano persone con un ossessionato senso di libertà. Ecco, io sono uno zelota. Io sono l’espressione della libertà assoluta e mi sento un handicappato nei confronti degli schemi sociali, che non mi interessano>>.

Con un carattere e una mentalità così decisa non era facile andare d’accordo. Nel mondo dello spettacolo Bonisolli si era urtato un po’ con tutti. Molti critici, quando scrivevano di lui, lo chiamavano “Bonisolli il pazzo”. Negli ambienti dei teatri circolavano i racconti più inverosimili sul suo conto. Molti erano inventati, ma qualcuno aveva radici. Si diceva, per esempio, che un giorno cantando l’aria dalla Turandot “Principessa altera ti voglio ardente d’amor “, abbia inserito arbitrariamente quattro “do” acuti, e ai critici che lo rimproveravano per l’estemporanea invenzione rispose: “La pausa è scritta da Puccini”. Una volta a Barcellona ebbe la sventura di rompere il “do” finale nella cabaletta “Di quella pira”. Si arrabbiò con se stesso, gettò la spada sul palcoscenico e quando il sipario si riaprì a fine atto per gli applausi, si avvicinò al proscenio e attaccò quel “do” che aveva mancato, tenendolo lungo, interminabile, per dimostrare che quanto accaduto era stato solo un banale incidente, ma lui l’acuto ce l’aveva in gola. In un’altra occasione, sempre a Barcellona, i dirigenti del Teatro Liceo, per difficoltà economiche, non gli avevano pagato tre recite di “Trovatore” e un Recital. Qualche settimana dopo, cantando a San Francisco con Montserrat Caballè, fece irruzione nel camerino del soprano cercando di sequestrarle il cachet. Diceva che quei soldi spettavano a lui perchè il Liceo di Barcellona gli doveva del denaro ed essendo lei, Montserrat Caballé, di Barcellona doveva pagare. Si dice anche che per un certo periodo abbia portato al dito un vistoso anello dove affermava di tenere dell’antidoto per il veleno che Pavarotti, Domingo, Carreras e Aragall volevano somministragli.

Leggende metropolitane, naturalmente. Però è indiscutibile che quando c’era lui in un teatro, polarizzava l’attenzione del pubblico, sottraendola anche ai colleghbi più famosi.
Un caso emblematico, che ho seguito anch’io, si verificò all’Arena di Verona nella stagione del 1985. Erano presenti dodici tenori, impegnati nei vari spettacoli e concerti: Luciano Pavarotti, Josè Carreras, Giuseppe Giacomini, Veriano Luchetti. Nicola Martinucci, Nunzio Todisco, Luis Lima, Giuliano Ciannella, Dalmacio Gonzales, Gaetano Scano, Mario Malagnini e Franco Bonisolli.
Con quelle dodici superstar, l'Arena era diventata una polveriera. Non perché quegli artisti si odiassero sul piano umano, ma perché erano, per forza di cose, in competizione. Per emergere, dovevano, come i gladiatori dell'antica Roma, eliminare l'avversario. Ogni sera, il protagonista di turno doveva battersi all'ultimo sangue: non soltanto contro le grandi difficoltà tecniche e artistiche del ruolo che interpretava, ma contro la folla, contro l'ombra dei colleghi che avevano cantato prima di lui o che avrebbero cantato il giorno successivo.
Era un gioco alla roulette russa. I nervi si logoravano, le tensioni erano elettriche; ogni tanto correvano voci di scenate, bisticci, minacce.
Uno dei protagonisti di quei "duelli di fuoco" era proprio Bonisolli. Interpretava Manrico nel Trovatore e Radames in Aida. Il pubblico lo adorava. Ogni sera, dopo che Bonisolli aveva terminato il celeberrimo brano 'Di quella pira", la folla scattava in piedi con un boato di applausi e grida degne di una partita di calcio. Alla "prima" erano accorsi i carabinieri e i vigili spaventati: temevano fosse accaduta una sciagura. Il bis della cabaletta era d'obbligo. Guai non concederlo, poteva scoppiare una rivoluzione. Alla prima rappresentazione, il direttore d'orchestra, Reynald Giovaninetti, contrario ai bis, non aveva ascoltato le richieste del pubblico e se ne era andato nel camerino, ma la gente, con grida e minacce, lo aveva costretto a tornare sul podio in modo che Bonisolli potesse ripetere la celebre cabaletta.
Certo, non sono comportamenti da esaltare, ma fanno comprendere quale carisma sprigionava Bonisolli e quale magico incantesimo era in grado di trasmettere alla folla con i suoi acuti. I colleghi sopportavano e criticavano. Ma nessuno voleva male a Franco Bonisolli. Era un “burbero” in superficie. Conoscendolo bene, ci si trovava di fronte a un personaggio ben diverso, umano, ricco di interessi, amante della cultura, lettore di libri dagli argomenti più svariati. Quel suo fare baldanzoso, da “spaccamondo”, era sempre intriso di tristezza, di malinconia, di infelicità, che sono le caratteristiche dell’artista scontento di se stesso e alla ricerca di una perfezione che non troverà mai.
Comunque, Bonisolli è stato e resta un vero artista. “Il tenore” per eccellenza, sul palcoscenico e nella vita. Il tenore eroico e drammatico, con la voce potente, squillante, con i “do” di petto spontanei e a profusione. Ma non si deve dimenticare la varietà del suo fraseggio, le smorzature, la dizione esemplare, i declamati in zona medio alta. Tenore generoso, esuberante, in grado di affrontare ogni tipo di spartito. Il suo repertorio spaziava da Monteverdi a Menotti, con un numero impressionante di titoli eseguiti, circa trecento. E a tutte queste qualità vocali si aggiunga la presenza fisica. Alto un metro e novanta, aveva un fisico atletico, sguardo da attore, eleganza estetica, verve istrionica, baldanza giovanile innata, grinta indomabile. Artista affascinante e personaggio complesso. Ed è stata la sua complessità ha ingenerare equivoci, polemiche, pregiudizi, discussioni, leggende, dicerie che alla fine ne hanno intorbidito ingiustamente la figura.

L’ultimo incontro che ho avuto con lui risale all’estate del 2002, un anno prima della sua scomparsa. Si trovava nella sua villa, a Castelnuovo di Porto, una ventina di chilometri fuori Roma, in piena campagna. Andai a trovarlo per un intervista che mi era stata chiesta da una rivista giapponese, “Ongaku No Tomo”, un mensile prestigioso, che tratta solo di musica lirica e sinfonica. In Giappone si erano ricordati che Bonisolli era in carriera da quarant’anni. Nessuno in Italia aveva festeggiato quella ricorrenza.
Franco mi accolse con grande affetto. Al telefono non gli avevo detto la ragione della mia visita. Gliela ripetei subito, appena arrivato a casa sua, pensando che gli facesse piacere che i giapponesi avessero ricordato quella ricorrenza della sua carriera. Invece no, divenne subito polemico. <<Macchè ricorrenze, feste, celebrazioni>>, disse astioso. <<Io non festeggio niente, non voglio avere a che fare con cose del genere. Diciamo che canto da quarant’anni e basta, tutto lì>>.
Era una giornata splendida. Dal giardino della villa si godeva una vista meravigliosa. Il tenore era nell’orto, occupato a curare le piantine di cipolle, con il cane che gli stava accanto.
<<Io vivo a Montecarlo>>, disse. <<Questa è la mia casa di campagna. Ho comperato del terreno diversi anni fa e poi ho realizzato questa casa su misura per me. La mia prima moglie, che era americana e che è scomparsa a causa di un tumore sei anni fa, mi diceva: “Se arriva un conflitto nucleare nessuno toccherà Roma”, e allora siamo venuti qui. E’ una casa voluta da me, costruita secondo le mie indicazioni e quindi adatta alle mie esigenze. Nel giardino ho piantato sette palme, perché mi piace la simbologia del numero sette, che è antichissima. Per questa ragione ho chiamato la casa “Villa delle sette palme”>>.
Ci sedemmo all’ombra. C’era anche la sua seconda moglie, Agnewska Sobocinska mezzosoprano polacca.
<< Ho sempre lavorato contro corrente>>, continuò a dire il tenore. <<Ho una sola dote, l’immodestia. Sono un arrogante, ma per legittima difesa. Aspiravo a raggiungere una verità artistica, se mai esistesse, e mi sono per questo urtato contro tutti. Potrei essere ancora sulla breccia. Ho qualità vocali da vendere, ma sono stufo di combattere contro il potere commerciale che impone artisti mediocri, e allora me ne sto qui, al sole, a curare l’orto >>. Sorrise triste e aggiunse: <<Alla fine bisogna essere contenti. Io sono stato molto fortunato ed ho raccolto anche più di quello che ha seminato>>.
Gli dissi di nuovo che i giapponesi desideravano una lunga intervista per ricordare i suoi 40 anni di carriera. Mi guardò storto, e io sorridevo perché sapevo che poi, alla fine, avrebbe parlato di sé a lungo, e anche con soddisfazione. E infatti fu così. Quella fu una lunghissima intervista che “Ongaku No Tomo”, pubblicò in otto pagine. Mai Franco aveva parlato tanto di se stesso. E fu disponibile anche per il servizio fotografico, posando sereno e gentile. Furono quelle, forse, le ultime foto serene della sua vita. Le foto di quella sua ultima estate. Era contento, felice, rilassato. Aveva 64 anni e nessuno avrebbe mai pensato che appena un anno dopo se ne sarebbe andato per sempre.
Ecco alcuni significativi stralci di quella lunga intervista, pubblicata in Giappone. Molte confidenze mai fatte prima, molti dettagli sconosciuti della sua vita, è interessi culturali che nessuno avrebbe immaginato che quel tenore avesse.

<<Sono nato a Roverto nel 1938>>, cominciò a raccontare Bonisolli. <<Appartengo a una famiglia di operai. Eravamo allora poveri, molto poveri. A volte in casa non c’era niente da mangiare. La povertà, la fame sono state "l'università" della prima parte della mia vita. E l’infanzia è stata un periodo di autentica miseria. Mia madre morì giovanissima per gli stenti della guerra. Mio padre, rimasto con quattro figli maschi da crescere, si trovò sperduto. Ma non mi lamento per quello che ho sofferto. La vera ricchezza di un artista viene dalla sofferenza»,
<<Quando hai scoperto di avere una voce straordinaria?
<<Sono stati gli altri a farmelo capire. Da ragazzino, cinque, sei anni, andavo sotto il tavolo e facevo dei suoni, specie di vocalizzi, raggiungendo i sovracuti, e vedevo che la gente si impressionava. In seguito ho trovato un pianista, Franco Melotti, persona molto simpatica, che sono andato a trovare anche recentemente. E’ stato lui a dirmi per primo: “Forse hai una bella voce di cantante lirico”. Mi portò da una ex soprano, che stava da quelle parti, aveva sposato un farmacista, e lei mi fece fare alcuni vocalizzi, dicendo che sì, potevo avere un avvenire di cantante lirico. Provai a studiare, ma non avevo i soldi necessari.
<<Poiché mi piaceva la musica, riuscii a comperarmi una vecchia chitarra e imparai a suonarla da solo. Per guadagnare qualche lira, soprattutto d’estate, cantavo canzonette per i turisti, nei bar sul lago di Garda. Una sera, tra la gente c’era un direttore d’orchestra di Visbaden. Dopo avermi ascoltato, mi avvicinò e mi chiese dove avessi studiato musica. “Non ho mai studiato con nessuno”, risposi. Mi chiese se conoscevo l’opera lirica”. “No” dissi. “Se studierai diventerai un grande tenore”, disse lui. La sera successiva mi accompagnò all'Arena di Verona ad assistere a una rappresentazione di “Carmen”. Quello per me fu un vero colpo di fulmine. Da quel momento non ho sognato altro che diventare un cantante lirico>>.
Nella tua famiglia c’era qualcuno appassionato di lirica?
<<Nessuno, ma tutti amavano la musica. Mia madre aveva una voce bellissima e una emissione quasi perfetta. Io la ascoltavo incantato quando cantava facendo i lavori domestici. Anche mio padre aveva un’ottima emissione, con una voce da basso di colore molto gradevole. Io e i miei tre fratelli abbiamo certamente ereditato qualche cosa perché tutti e quattro siamo diventati adulti con belle voci di tenore, i miei fratelli con una voce addirittura migliore della mia>>.
<<Dopo la “Carmen” ascoltata all’Arena di Verona, che cosa hai fatto?>>
<<Quell’esperienza mi convinse che “dovevo” a tutti i costi studiare musica. Cominciai a darmi da fare seriamente. Andai dal maestro della banda cittadina di Rovereto a farmi dare lezioni di solfeggio. Poi cercai un maestro di canto a Trento, ne trovai uno ma mi resi presto conto che non serviva a niente, non era in grado di aiutarmi.
<<Un amico mi parlò del Concorso di Canto “Adriano Belli” di Spoleto, che allora era molto importante. Mi sembrò che fosse l’occasione per uscire da Rovereto e trovare la possibilità di studiare con persone competenti. Perché questo io cercavo allora: poter studiare. Non avevo ambizioni di successo, di affermazioni, volevo solo imparare.
<<Partecipai all’edizione del 1951. Le selezioni si tenevano a Roma. Eravamo molti concorrenti. Io ero certamente il più ignorante di tutti. Conoscevo due romanze: “Quando le sere al placido” e “Non piangere Liù”. Arrivato il mio turno, salii sul palcoscenico e cantai. Vinsi ottenendo ciò che desideravo: una borsa di studio per poter studiare. Mi fermai a Roma e preparai il debutto cui avevo diritto per aver vinto il concorso. L’opera in questione era “La Rondine” di Puccini. Ma gli organizzatori, vista la mia buona volontà, mi diedero anche un supplemento di borsa di studio per continuare a studiare. Roma è stata la città in cui mi sono formato come artista. A Roma incontrai la mia prima moglie, che era americana, bravissima musicista. Divenne la mia maestra e, lavorando tenacemente insieme, abbiamo costruito la mia carriera>>.
<<Quali opere comprende il tuo repertorio?
<<Nella mia carriera ho cantato di tutto. Ho cominciato come tenore leggero. Ero molto giovane, avevo 23 anni, la voce era ancora piccola. Poi, a poco a poco, con il trascorrere degli anni, sono passato al repertorio lirico, poi lirico spinto e infine a quello drammatico. In pratica, il mio repertorio spazia da Monteverdi a Giancarlo Menotti. Ho eseguito molte opere del periodo barocco, diverse opere di Mozart, di Gluck. Approssimativamente ho cantato in circa trecento opere. Spesso ho cantato opere tedesche in lingua originale e nessuno si accorgeva che ero straniero. Ho sempre avuto una grande facilità per le lingue>>.
Quali sono le tue opere preferite?
<<Quelle che amo di più sono quattro e cominciano tutte e quattro con la “T”: Turandot, Trovatore, Traviata e Tristano e Isotta. Tra queste la preferita è Turandot. Nel mio intimo sono rimasto un bambino e adoro le favole: Turandot è una grande bellissima favola. Se poi vogliamo allargare il numero delle preferenze, aggiungerei Otello, Rigoletto, in pratica tutte le opere di Verdi e diverse di Rossini. Per un certo periodo ho amato moltissimo “La donna del lago” e “Guglielmo Tell”>>.
<<Dicono che “Guglielmo Tell” sia la rovina dei tenori: non hai avuto paura ad affrontarlo?
<<Per niente. L’ho cantato una cinquantina di volte. A Firenze, con la direzione di Riccardo Muti, ho fatto otto recite cantando ogni altra sera. C’era molta tensione tra gli addetti ai lavori e non capivo perché. In realtà tutti si aspettavano che crollassi. Il direttore artistico, maestro Rocchi, mi disse: “Quando hai finito le recite, ti rivelerò una cosa importante”. Al termine del mio impegno andai a chiedergli che cosa mi doveva rivelare. “Nella storia della lirica”, disse “nessun tenore ha mai fatto otto recite di fila del “Guglielmo Tell” integrale”>>.
<<Molti ti chiamano il “re degli acuti”>>
<<E’ un’espressione che non mi piace. I tedeschi, che mi vogliono bene, dicono che sono “il cavaliere degli acuti”. Il termine “Re” fa pensare a un vecchio, mentre “Cavaliere” ricorda un giovane baldo e forte. E poi, questa storia degli acuti è diventata una trappola per me. E’ vero che io ho gli acuti facili, non trovo difficoltà ad affrontarli, ma gli altri, coloro che non ce la fanno ad arrampicarsi su quelle vette, sono invidiosi ed hanno messo in atto di tutto per screditarmi. Dicono che io invento gli acuti anche dove non ci sono, che ricorro agli acuti per stupire la gente, che sono rozzo, che non conosco la musica, che confondo il palcoscenico con un ring. Gli acuti, che sono un dono, mi hanno praticamente avvelenato la carriera.
<<Io non sono un fanatico degli acuti. Me ne servo perché li ritengo utili allo spettacolo. Gli acuti sono parte essenziale della tradizione lirica. La musica è emozione, è un'altalena di piani e forti. L’acuto, quando l'onda musicale lo chiama, è come una liberazione, un'esplosione armoniosa di sentimenti che dà emozioni Indimenticabili. Giuseppe Verdi, in una sua lettera. scrisse: “Ben mi guardo dal togliere tutto quello che è effetto dalla mia opera perché la mia musica è effetto, effetto e ancora effetto, signori miei”
<<Garcia, il padre di Maria Malibran ha scritto un metodo di canto dove dice che nel canto tutto si può fare ai fini interpretativi. Quando l’acuto viene in funzione del contenuto del testo, il pubblico va giustamente in delirio, E’ una reazione epidermica, perché il senso del grandioso lo capiscono anche gli ignoranti. E quando scattano queste emozioni istintive, vuol dire che il sentimento è arrivato a cottura giusta, che la verità artistica è raggiunta. Ma per favore, smettiamo di parlare di questo argomento, altrimenti mi innervosisco e poi perdo il sonno e l’appetito>>.
<<Tu sei nato a Rovereto, sei quindi uno del nord: come ti trovi qui a Roma, cioè con la gente del Sud?>>
<<Benissimo, ma proprio perché non ho alcun legame con la terra dove sono nato. Io mi sento un abitante della crosta terreste. Sto bene dappertutto. Sono un cittadino del mondo. Un apolide. Odio il nazionalismo. Oggi si parla molto di Europa unita, ma è da quando avevo quindici anni che io sogno l’universo unito, non l’Europa unita>>.
Sei soddisfatto della scelta di aver voluto fare il cantante lirico?
<<E’ una professione che mi ha dato tante soddisfazioni. Ma se tornassi indietro non sceglierei più di fare il cantante. Trovo i testi dei libretti idioti. Aveva ragione Bernard Show quando diceva: “Tutte le parole idiote che non si usano nel parlare comune, si trovano nei libretti dei melodrammi”>>.
Quali sono i tuoi hobby?
<<Mi piacciono tante cose. Sono polivalente, vado in tutte le direzioni. Mi appassiono a libri di scienza, di geologia, amo l’astrologia antica, le scienze esoteriche, lo studio delle civiltà antiche, del tempo quando gli uomini hanno cominciato a formare le parole. Trascorro gran parte delle mie giornate a leggere libri su questi argomenti. E mi appassiono. Voglio approfondire. Vado alla ricerca delle opere fondamentali che stanno all’origine delle grandi civiltà e voglio leggere i documenti antichi in originale. Mi sono messo quindi ha studiare le lingue antiche: greco, latino, le lingue dell’antica Palestina, il sanscrito, il pali, l’ebraico. La Bibbia io la leggo in ebraico. Un giorno mi appassionai al “Libro dei morti”, non quello egiziano, ma quello tibetano e allora sono andato in Tibet e per due anni ho studiato il tibetano antico. Se i miei colleghi mi sentissero parlare di queste cose, direbbero che sono pazzo per davvero. Invece io mi diverto. Quando posso dedicarmi a questi studi, mi sento finalmente realizzato. Al punto che mi sento in pace con il mondo. Non provo più sentimenti di rancore con nessuno, neppure con i miei nemici. Anzi, posso dire che da diverso tempo io non ho più nemici. Sono entrato in un’altra dimensione>>.
<<I tuoi prossimi impegni?>>
<<Concerti, qualche opera, insegnamenti a mia moglie, una tournée in Giappone e tante tante ore con i miei libri preferiti>>.

Spensi il registratore e ringraziai Franco delle tante cose che mi aveva raccontato. Il tenore andò al pozzo che aveva in giardino e dal fondo tirò sù una anguria che aveva messo in fresca proprio per noi. La tagliò con grande allegria e volle che la mangiassimo insieme. Poi, con grande disponibilità si concesse al fotografo
La luce del tramonto pareva magica. Guardavo il tenore che si prestava scherzoso alla macchina fotografica. Pensavo alle sue ultime parole. Ai curiosi e straordinari interessi che coltivava, i libri, le lingue antiche. Nessuno mai avrebbe immaginato che Franco Bonisolli avesse interessi del genere. Invece, parlando di questi argomenti, dimostrava un entusiasmo incredibile. Pensavo, quindi, che la sua vecchiaia sarebbe stata lunga e felice. Che, quando avrebbe smesso di cantare, non si sarebbe sentito “finito”, “smarrito”, come in genere succede agli artisti. Avrebbe dedicato il suo tempo a quegli interessi che tanto lo prendevano. E, vedendolo così forte, allegro, scherzoso, mai avrei potuto immaginare che il filo della sua esistenza era ormai alla fine. E appena un anno dopo si sarebbe interrotto>>.

Renzo Allegri

 

 

 

 

WEBITALYNEWS
Registrazione Tribunale di Aosta N° 01/05 del 21 Gennaio 2005
Direttore responsabile Franco Rossi Marcelli
Direttore editoriale Marco Camilli
Iscrizione R.O.C. n° 16223 del 25 Ottobre 2007