A due anni dalla
morte, Giuseppe Di
Stefano è stato
ricordato con una
serata in suo onore,
voluta e organizzata
dell’Accademia Arte
& Musica, a Milano,
al teatro alla
Scala. Alla
manifestazione hanno
partecipato
importanti critici e
musicologi e nel
corso della serata è
stato donato al
Museo del Teatro
alla Scala un
magnifico ritratto
del tenore, eseguito
dallo scultore W.
Alexander Kossuth.
E’ difficile parlare
di questo di Di
Stefano. E’ sempre
stato un personaggio
scomodo, nel senso
che non si è mai
piegato di fronte a
nessuno. Aveva una
personalità forte ed
estremamente
indipendente, ma il
suo comportamento è
sempre stato leale e
molto civile. Non ha
mai fatto il
“tenore”. Amava
dire: “Io sono un
uomo che per
divertirsi ha anche
cantato”. Ha
polemizzato con
direttori
d’orchestra, con
colleghi cantanti,
con i critici. Nella
sua carriera ha
avuto alti e bassi.
E’ stato sommo,
inarrivabile. E poi
è caduto, ancor
giovane, in
difficoltà vocali
tremende. E allora i
suoi nemici gli sono
saltati addosso
godendo di vederlo
nella polvere. Lo
hanno criticato,
inventando cause
assurde del suo
crollo che per anni
ha dovuto portarsi
dietro.
Ma adesso, a
distanza di tanto
tempo, è possibile
tracciare un
bilancio sereno.
Ormai le polemiche
sono acqua passata.
Solo coloro che non
capiscono niente di
musica insistono in
quelle critiche, che
non hanno proprio
nessun senso.
Giuseppe Di Stefano
fa parte della
storia della musica.
Su questo non ci
sono dubbi. E della
Storia della musica
con la S maiuscola.
Tra le grandi voci
del nostro secolo,
occupa un posto di
primaria importanza.
Per certi versi è
stato un tenore
unico. Anche perchè
la bellezza della
sua voce si è sempre
accompagnata a una
stupefacente
chiarezza
declamatoria e
interpretativa, come
raramente è dato
incontrare. Il suo
fraseggiare, il suo
porgere, sia nelle
arie come nei
recitativi, era
spontaneo, naturale,
perfetto, degno di
un attore di prosa.
<<In palcoscenico io
“recito cantando”>>,
affermava con
orgoglio quando era
in carriera, e
nessuno lo faceva
con l’eleganza e la
magia che aveva lui.
Di Stefano è nel
cuore di tutti gli
appassionati di
canto. Pensando a
lui, si immagina una
voce, bella come
nessun’altra, libera
e fresca come quella
di un eroe, che se
ne va, ineffabile,
nell’aria. Nelle
opere liriche, come
nelle canzoni,
trascinava in un
mondo di emozioni
indimenticabili.
Di Stefano è stato
una leggenda. Ed è
ancora un mito.
Anche perchè ha
avuto la fortuna di
essere protagonista
di un evento unico
nella storia della
musica: cantare
spesso in coppia con
Maria Callas,
formando con la
“divina” un “duo”
irripetibile. Pippo
e Maria erano due
geni del
palcoscenico. Due
personalità forti e
incoercibili, che,
messe insieme,
formavano una
miscela esplosiva,
dalla forza
artistica
incalcolabile. Chi
ha assistito allo
loro opere negli
anni Cinquanta sa
che un miracolo del
genere non succederà
mai più. Ma, per
fortuna, le loro
interpretazioni,
ancora diffuse in
milioni di Cd,
continuano a stupire
ed emozionare il
mondo.
Siamo stati amici
per anni. L’ho
intervistato molte
volte. Ma non amava
l’incontro con i
giornalisti. In
un’occasione però fu
molto loquace. Parlò
a ruota libera. Fu
nel 1996, quando
andai a trovarlo per
un articolo per
“Ongaku No Tomo”, la
prestigiosa rivista
di musica classica
giapponese, che lo
pubblicò su otto
pagine. Sono andato
a rileggermela in
questi giorni. E’
un’intervista ricca
di confidenze
eccezionali, di
informazioni inedite
sulla sua vita e
sulla sua carriera.
Credo che per la
prima volta abbia
rivelato in quell’intervista
la vera storia della
sua crisi vocale e
della sua relazione
con Maria Callas. Un
documento molto
importante, e penso
la sua ultima lunga
intervista.
<<L’ultimo
concerto>>, mi disse
allora Di Stefano
<<l’ho tenuto nel
dicembre del 1995 in
Messico. In quella
nazione avevo
cantato la prima
volta nel 1952,
quando avevo fatto
una tournée con
Maria Callas
interpretando cinque
opere, che avevano
mandato in visibilio
il pubblico. Da
allora ero sempre
stato un beniamino
di quella gente. E
anche per l’ultimo
concerto avevo
ricevuto accoglienze
trionfali. Ma, nel
corso di quel
concerto mi resi
conto che gli
applausi erano
regalati. La mia
voce era scassata.
Facevo pena a me
stesso. Al termine
mi son detto: “Basta
Pippo, è giunta
l’ora di non aprir
più bocca”. E così è
stato>>.
Parlava con un tono
di voce deciso ma
che, all’accenno di
non cantar più,
tradì una leggera
commozione. Stavamo
camminando lungo
l’Adda, il fiume che
scorre poco lontano
dalla sua casa in
Brianza. Era una
bella giornata di
fine autunno. Pippo
mi aveva dato
appuntamento
all’improvviso.
<<Passo da casa,
vieni a trovarmi>>,
mi aveva detto al
telefono. Parlava da
Amburgo, in
Germania, dove si
era recato per
partecipare a una
grande festa in suo
onore. Si sarebbe
fermato nella sua
casa alcuni giorni,
poi via, verso il
caldo. Da alcuni
anni trascorreva i
mesi invernali in
Kenia. <<Mi sono
fatto costruire una
bella casa lungo la
spiaggia dell’Oceano
Indiano, a pochi
chilometri da
Mombasa>>, mi aveva
raccontato. <<Mi
trovo benissimo in
Africa. Ho scoperto
un’altra vita, un
altro pianeta. Prima
ero legato ai
teatri, alla
mondanità, alle
feste, alle grandi
città, al chiasso,
ai casinò e,
naturalmente, alla
mia professione di
cantante. Adesso
adoro il vento, il
silenzio, gli spazi
infiniti della
giungla, il sole a
picco, la natura
selvaggia. Vivo in
una zona che fino a
qualche anno fa era
deserta. Mangio
quasi esclusivamente
frutta, come i
tucani. Dormo
all’aria aperta,
sotto l’ombra degli
alberi, come i
vecchi leoni. Sto a
mollo nella mia
piscina di acqua di
mare, come una foca.
Trascorro ore a
osservare i tramonti
tropicali, densi di
una malinconia
struggente e sempre
nuovi. Il Di Stefano
di un tempo, il
tenore per
intenderci, non c’è
più. Io sono
un’altra persona>>.
<<E la musica?
Hai tradito la
musica?>>, gli
avevo domandato
. <<No, la musica io
non la posso
tradire. La musica è
la mia anima. Io
sono fatto di
musica. Nella mia
grande casa africana
ho fatto installare
un magnifico
impianto
stereofonico e lo
tengo accesso molte
ore al giorno.
Ascolto opere a
anche molta musica
sinfonica. Sono
diventato un
fanatico di Mozart.
Ma ascoltare i
capolavori di Mozart,
Beethoven, Bach,
Verdi, Puccini,
Bellini, Donizetti
in quella terra, tra
quegli spazi, in
quel silenzio, ti dà
emozioni che qui,
nella confusione
caotica delle nostre
città, non si
possono neppure
immaginare>>.
Accanto a Pippo
c’era la sua seconda
moglie, Monika Curth,
soprano tedesco,
conosciuta sul
palcoscenico e
sposata nel 1992.
<<Pippo è il mio
idolo fin da quando
ero una bambina>>,
mi disse Monika.
<<Poi, quando ho
cantato con lui, è
diventato il mio
sogno e adesso è mio
marito. Sono felice
e stiamo bene
insieme>>.
<<Anche in Africa
Pippo è famoso>>,
disse ancora Monika.
<<Quando andiamo a
fare la spesa in
città, ogni tanto
incontriamo delle
persone. Italiani,
francesi, inglesi,
americani, tutti lo
riconoscono.
Qualcuno ha tentato
di organizzare dei
concerti, ma Pippo
ha detto decisamente
di no. Non canta più
in pubblico. Lo fa
solo in casa nostra,
quando gli viene
voglia. E la sua
voce è ancora
bellissima. Se ne
sono accorti anche i
nostri collaboratori
domestici che sono
indigeni. Quando
Pippo canta, si
fermano, si siedono
per terra e
ascoltano rapiti. E’
bellissimo vedere la
scena. Pippo, con
indosso soltanto in
paio di calzoncini,
nel salotto della
nostra casa o in
giardino sotto le
palme, impegnato in
qualche aria
belliniana, con
acuti ancora
perfetti e filati
inimitabili, e
intorno i domestici
di colore che lo
guardano con i loro
occhi bianchi, pieni
di stupore. E
accanto ai negri,
anche i nostri due
cani: Simba, un
Rhodesian ridgecat
terribile, usato per
la caccia ai leoni e
che a noi serve da
guardia, e Chidogo
un trovatello
bastardino: anche
loro sono innamorati
della voce di Di
Stefano>>.
<<Pippo, ti vedo
felice, ti sento
soddisfatto: non hai
nessuna nostalgia
dei bei tempi
passati?>>,
domandai..
<<Tanta tanta>>,
rispose socchiudendo
gli occhi quasi a
voler rivedere il
passato. <<Per certi
versi. la mia vita è
stata bella come una
favola. Spesso,
però, le favole,
hanno delle brutte
conclusioni. Io
invece sono
fortunato. Sono
felice anche ora che
non canto più. Per
cui ogni tanto penso
al passato, ma non
lo rimpiango: vivo
con gioia il
presente, che per
me, nonostante
tutto, è molto
bello>>.
<<Quando ti sei
accorto che eri nato
per fare il
tenore?>>.
<<Ho preso coscienza
delle mie qualità
canore a poco a
poco. Fin da
piccolo, mi piaceva
cantare, ma lo
facevo senza
calcoli. Cantavo
perchè ero felice.
Cantavo canzonette.
Non conoscevo niente
dell’opera>>.
<<In famiglia,
c’era qualcuno che
amasse la lirica?>>.
<<Che io sappia no.
Sono siciliano. Sono
nato a Motta Santa
Anastasia, a pochi
chilometri da
Catania. Mio padre
era un carabiniere.
Dopo la mia nascita
lasciò l’arma, si
trasferì a Milano in
cerca di fortuna.
Aveva un negozietto
di ciabattino. Ma
era troppo onesto
per far soldi. E’
sempre stata mia
madre a mandare
avanti la baracca,
con la sua abilità
nell’arte del
cucito. Né mio padre
né mia madre si
erano mai
interessati di
lirica. Cominciarono
a distinguere un
tenore da un soprano
quando io sono
diventato famoso
alla Scala>>.
<<Chi per primo
ti ha avvicinato al
mondo della musica
classica?>>.
<<Un amico. Un certo
Danilo Fois, che
divenne poi un noto
avvocato. Aveva
qualche anno più di
me, ma giocavamo a
carte insieme.
Quando vincevo,
canticchiavo e lui,
che era un fanatico
di lirica, mi
ascoltava estasiato
perchè diceva che
avevo una bellissima
voce. Un giorno,
improvvisamente,
sentenziò, gridando
forte: “Tu sei un
tenore”. Lo guardai
meravigliato. “Cosa
hai detto?”, chiesi.
“Tu sei un tenore”,
ripetè guardandomi
con gli occhi fuori
dalla orbita.
“Adesso ho capito:
tu sei un tenore e
diventerai famoso,
ne sono certo”.
Ripresi a guardare
le mie carte
pensando che volesse
prendermi in giro.
Invece, da quel
giorno egli continuò
a parlarmi di
lirica, a
illustrarmi le
qualità della mia
voce, a ripetermi
che dovevo trovarmi
un maestro e
cominciare a
studiare seriamente
musica.
<<A poco a poco
riuscì a
incuriosirmi. Un
giorno decisi di
andare con lui ad
ascoltare un’opera
alla Scala. Ma quel
primo contatto con
la lirica risultò
noioso e antipatico.
Dovetti fare una
fila di ore, per
avere il biglietto e
finire poi in
loggione, tra gli
appassionati più
sfegatati che a me
però sembravano dei
pazzi, degli
esaltati. L’opera
non mi diede alcuna
emozione. Non la
capivo. Non ricordo
neppure che opera
fosse. Tornai a casa
disgustato e
continuai a
preferire le
canzonette. Ma
Danilo non si
scoraggiò. Per lui
“ero un tenore” e
continuò a
imbottirmi la testa
con le sue fantasie.
<<Una sera mi portò
in una osteria dove
si esibivano tutti
coloro che pensavano
di avere una bella
voce e aspettavano
poi il giudizio
della gente. Cantai
anch’io e fu un
disastro. Nessuno
applaudì. Solo
Danilo mi disse:
“Hai cantato
benissimo”. In
seguito, sempre
spinto dal mio
amico, partecipai a
un paio di concorsi
e li vinsi. La mia
foto finì sul
“Corriere della
sera”, nella pagina
degli spettacoli.
Tutti la videro e mi
facevano le
congratulazioni.
Nella zona dove
vivevo,
improvvisamente ero
diventato qualcuno.
Le ragazze mi
guardavano in modo
diverso. La cosa mi
inorgoglì. Mi resi
conto che con la
voce si potevano
avere dei vantaggi e
cominciai anch’io a
prendere in
considerazione la
possibilità di fare
il tenore>>.
<<Hai studiato
con qualche
maestro?>>.
<<Ho ricevuto delle
lezioni di solfeggio
da un tenore,
Adriano Torchio, che
cantava nel coro
della Scala. Poi
qualcuno mi presentò
al baritono
siciliano Luigi
Montesanto, che era
allora una
celebrità. Tutti
hanno sempre scritto
che Montesanto è
stato il mio maestro
e anch’io l’ho
sempre detto. In
realtà, sono stato a
scuola da lui
soltanto due mesi.
Poi è scoppiata la
guerra e sono
partito per il
servizio militare>>.
<<Hai dovuto
quindi interrompere
le lezioni>>.
<<Ma ho cominciato a
cantare. La vera
preparazione alla
mia carriera l’ho
fatta sotto le armi,
cantando per
necessità. Il
servizio militare
era duro per me. Non
sopportavo la
disciplina, le
marce, le levatacce.
Mi accorsi però che,
cantando, tutti mi
volevano bene ed
erano disposti a
chiudere un occhio
sulla mia pigrizia.
Il tenente medico
Giovanni
Tartaglione, da cui
dipendevo, era
terribile e temuto
da tutti. Di me
diceva: “Sei un
fetente”. Ma dopo
avermi sentito
cantare, cominciò a
stimarmi. Certe sere
mi chiedeva di
cantare per i
soldati e mi
ascoltava estasiato.
Un giorno arrivò
l’ordine che il
nostro battaglione
doveva partire per
la Russia.
Significava andare
incontro alla morte.
Lo sapevamo bene. Il
tenente mi chiamò e
mi disse: “Tu devi
rimanere in Italia.
Come soldato sei un
fetente, ma come
tenore, un giorno
sarai utile al
nostro Paese”. Mi
abbracciò commosso e
mi consegnò l’ordine
di trasferimento in
un altro reparto che
non sarebbe partito
per la Russia. In
questo modo mi salvò
la vita. Dalla
Russia non tornò
neppure lui.
<<All’inizio del
1943 ottenni una
lunga licenza per
malattia. A Milano
c’era miseria. I
miei genitori non
avevano lavoro, in
casa si faceva la
fame. Decisi di
sfruttare la mia
voce. Mi presentai a
un impresario che
stava allestendo uno
spettacolo e gli
chiesi di
ascoltarmi. Cantai
alcune canzoni e lo
conquistai. Mi offrì
150 mila lire a
serata e il giorno
dopo cantavo nel suo
spettacolo. Cambiai
nome. Mi facevo
chiamare Nino
Florio. Non volevo
che sui manifesti di
quello spettacolo,
che era di varietà,
ci fosse il mio vero
nome. Ero certo
ormai che un giorno
sarei diventato un
tenore famoso e non
volevo che il mio
vero nome, Giuseppe
Di Stefano, potesse
essere in qualche
modo confuso con un
cantante di
canzonette. Nino
Florio divenne
subito famoso. Dopo
una settimana, il
mio cachet era di
500 mila lire a
serata.
<<Finita la licenza,
tornai a fare il
soldato. L’otto
settembre del 43,
quando arrivarono i
tedeschi ero in
caserma. Capii che
le cose si mettevano
male. Riuscii a
farmi dare un
permesso di libera
uscita mostrando a
un comandante delle
SS una mia foto in
smoking e dicendogli
che ero un famoso
tenore, molto più
bravo di Beniamino
Gigli. Mi credette e
mi accompagnò di
persona all’uscita
della caserma.
<<Tornai a Milano,
presi il treno per
rifugiarmi in un
paesino in provincia
di Varese dove avevo
una fidanzata. Ma il
capotreno, che mi
conosceva, mi
suggerì di lasciar
perdere la fidanzata
e di continuare il
viaggio
oltrepassando la
frontiera per
raggiungere la
Svizzera. “Se stai
qui”, disse “finirai
in un campo di
concentramento
tedesco”. Lo
ascoltai e fu la mia
fortuna. In Svizzera
mi costituii come
prigioniero
politico. Venni
collocato in un
campo di raccolta
dove mi trattavano
benissimo. Anche lì
mi servii della voce
per farmi notare. Un
caporale svizzero,
che si era
innamorato della mia
voce, ma che cercava
di fare la corte
anche a me, volle
accompagnarmi a
Zurigo per
un’audizione al
Teatro di Stato.
Cominciai a tenere
concerti.
Interpretai diverse
opere a Radio
Losanna. Incisi
anche dei dischi per
“La voce del
padrone”, una casa
di grande prestigio.
Divenni così famoso
che quando morì
Franklin Roosvelt,
presidente degli
Stati Uniti, benchè
fossi un soldato
italiano e quindi
appartenente a una
nazione che era in
guerra con gli Stati
Uniti, venni
chiamato
dall’ambasciatore
americano a cantare
nella cattedrale di
Berna nel corso di
una cerimonia
funebre in onore del
presidente defunto.
<<Rientrai a Milano
nel ‘45. Ormai
sapevo che la mia
voce valeva oro. Ero
deciso a sfruttare
l’occasione. Tornai
a riprendere lezioni
da Montesanto. Ma la
fama di quello che
avevo fatto in
Svizzera si era già
diffusa anche in
Italia. Fui
avvicinato da un
celebre impresario,
Carlo Alberto
Cappelli, che mi
offrì un contratto
per dieci recite di
“Manon” di Massenet.
Accettai e il 20
aprile 1946 feci il
mio debutto in
un’opera, in Italia,
sul palcoscenico del
Teatro Sociale di
Reggio Emilia,
ottenendo un
successo strepitoso.
Nove mesi dopo ero
alla Scala e subito
dopo al Metropolitan
di New York. La mia
carriera era partita
con la velocità di
un razzo e non si
fermò più>>.
<<Per undici anni
sei stato un
fenomeno. Un astro
incandescente. Il
“tenore” per
eccellenza. Tutti
invidiavano il tuo
modo di cantare
naturale, spontaneo,
facile. Poi,
improvvisamente, il
crollo. Che cosa ti
era accaduto?>>.
<<La risposta è
complicata. Prima di
tutto, bisogna dire
che io non ho mai
avuto la vocazione
di “fare soltanto il
tenore”. Anzi, ho
sempre odiato questo
ruolo. Io ero un
uomo che si
divertiva a cantare.
E quando non c’era
il divertimento, si
annoiava al punto da
non cantare più. La
maggior parte degli
artisti lirici sono
dei mercanti della
propria voce.
Cantano per far
soldi. Quindi
cercano di
conservarsi, di
mantenere in
perfette condizioni
la propria voce per
guadagnare. Questo
non è mai stato il
mio caso. Non sono
mai stato schiavo
della mia voce. Non
ho mai smesso
neanche di fumare.
Io ho sempre cantato
per passione. Quando
venivo scelto per
interpretare
un’opera importante,
mi sentivo
orgoglioso ma non ho
mai discusso sul
cachet. Però ero
pronto a piantar
tutto se qualcosa mi
avesse irritato.
Sono un tipo
passionale ed
emotivo. E i miei
famosi capricci non
erano frutto di
superbia, ma crolli
emotivi. Se non
trovavo un’atmosfera
distesa intorno a
me, non riuscivo a
cantare. Direttori
d’orchestra famosi,
come Toscanini, De
Sabata, Serafin,
Guarnieri, avevano
capito questo mio
carattere e mi
mettevano nelle
condizioni di dare
il meglio di me
stesso. Altri,
invece, erano freddi
e con loro stavo
male. Così me ne
andavo. Non ho mai
litigato. Ma ho
piantato un sacco di
opera a metà.
<<La vera causa che
interruppe la mia
carriera fu un
banale incidente. Un
cantante, per essere
bravo, deve restare
senza soldi. Solo il
tenore affamato ha
la voce limpida e
squillante. Il
benessere porta alle
comodità, al
supernutrimento, al
mal di fegato, alla
distruzione della
voce. Il benessere è
stato la causa anche
della mia crisi.
<<Nel 1958,
all’apice della mia
carriera, mi feci
costruire una villa
meravigliosa a
Milano, nella zona
di San Siro. Aveva
tutte le comodità.
Perfino l’aria
condizionata, allora
ancora molto rara, e
il riscaldamento a
pannelli, cioè con
l’acqua calda che
scorreva sotto il
pavimento, che era
una novità.
<<Nella mia villa mi
sentivo un re.
Quell’inverno
cantavo alla Scala.
Andai alla prima
prova in piena
forma. Ma dopo una
mezz’ora
improvvisamente la
voce scomparve.
Pensavo a un colpo
di freddo. Tornai a
casa e andai a
letto. Il mattino
dopo feci qualche
gorgheggio e la voce
era splendida. Andai
alle prove ma dopo
pochi minuti restai
di nuovo afono. La
cosa si ripetè nei
giorni successivi.
Dovetti interrompere
l’opera. I giornali
cominciarono a
scrivere che ero
finito. Accusavano
il mio modo di
cantare a voce
spiegata, a gola
larga. Dicevano che
ero rovinato per
sempre. Credetti ai
giornali e provai a
cantare stretto ma
non servì a niente.
Cominciò così una
crisi spaventosa. La
voce andava e
tornava,
capricciosamente
senza che potessi
dominarla. In quelle
condizioni non
potevo essere sicuro
di me stesso. Per
cinque anni
continuai a
studiarmi e a
indagare sulle cause
che mi procuravano
quelle terribili
afonie e finalmente
scoprii l’origine
delle mie disgrazie:
ero una vittima del
benessere. Ero ricco
e avevo voluto nella
mia villa quel nuovo
riscaldamento a
pannelli, che pochi
potevano
permettersi. E quel
riscaldamento mi
aveva rovinato.
L’aria calda,
passando sotto il
pavimento ricoperto
di moquette di
naylon, asciugava
l’umidità delle
stanze. Io respiravo
aria secca, la quale
mi seccava le mucose
della gola e dei
bronchi. Cantando,
in pochi minuti
consumavo la riserva
di umidità del mio
apparato
respiratorio e le
corde vocali si
irritavano
lasciandomi afono.
Quando scoprii
questo, vendetti la
villa, ma non servì
a niente. Ormai era
troppo tardi>>.
<<Poi, però, sei
riuscito a
riprenderti.
Infatti, sei tornato
a ottenere ancora
grandi trionfi alla
Scala e in tanti
altri teatri>>.
<<E’ vero, ma da
allora ho sempre
avuto i critici
contro. Hanno
continuato a gridare
che ero finito anche
se avevo ripreso a
cantare come ai
vecchi tempi. Mi
odiavano. Erano
invidiosi perchè non
avevo mai voluto
ascoltare i loro
stupidi consigli. E
per molte persone la
ripresa non è mai
esistita.
<<Ma chi se ne
intendeva veramente
di canto, si era
accorto che avevo
riacquistato la voce
di un tempo. Nel
1974 ebbi una grande
soddisfazione. Avevo
53 anni. Da otto i
critici continuavano
a tormentarmi
dicendo che mi ero
rovinato volendo
cantare a modo mio.
Me ne avevano dette
così tante che io
stesso mi ero
convinto di essere
veramente finito per
sempre. Ma ecco che
si fece avanti la
più grande artista
lirica in piena
attività di quegli
anni: Montserrat
Caballè. Dopo avermi
sentito cantare a un
concerto, chiese di
incidere un disco
con me. La cantante
spagnola in quel
momento poteva fare
quello che voleva.
Essere richiesti da
lei era un grande
onore. E significava
essere veramente
bravi. Non volle uno
di quei tenori
giovani che in quel
momento erano in
auge. Scelse me. Il
suo atto di stima mi
diede l’entusiasmo
dei tempi d’oro.
Cantai divinamente e
facemmo un disco
stupendo. Io stesso
non credevo di
conservare una voce
così incisiva. Ne
fui molto felice
perchè potevo
dimostrare ai miei
nemici che non avevo
perduto la voce da
cretino, come
avevano scritto, ma
che ero ancora
Giuseppe Di
Stefano>>.
<<Nel 1973 tu
fosti protagonista
anche di una serie
di concerti che
hanno fatto storia:
la celebre tournée
con Maria Callas
che, grazie a te,
era tornata a
cantare dopo mi
sembra otto anni di
assenza dal
palcoscenico>>.
<<In realtà si
trattava di un
ritorno per tutti e
due. Lei non cantava
da otto anni. Io ero
sempre con la spada
di Damocle della mia
crisi sulla testa.
Negli Anni Cinquanta
eravamo stati una
“coppia lirica”
leggendaria.
Ritornare a cantare
insieme era un
grosso avvenimento.
<<A chi venne
quell’idea?>>.
<<Al destino. Noi
artisti torniamo
sempre sul luogo del
delitto. Abbiamo
trascorso gli anni
migliori della vita
sul palcoscenico e
quando non possiamo
respirare più la
polvere del
palcoscenico stiamo
male. Sono convinto
che tutti i cantanti
lirici a riposo,
anche i novantenni,
sarebbero pronti a
riprendere
l’attività se ne
avessero
l’occasione. Io e
Maria non ci
sentivamo in età da
pensione. Anche se
qualche invidioso
avrebbe voluto che
fossimo al ricovero.
Eravamo convinti di
avere ancora
qualcosa da dire al
nostro pubblico e da
insegnare ai
giovani. Per questo
decidemmo di
tornare.
<<Il progetto era
stato preparato con
un anno di anticipo
e l’inizio dei
concerti doveva
avvenire a Londra il
22 settembre 1973
nella Royal Festival
Hall. Tutto era
pronto. I biglietti
per assistere al
concerto erano
esauriti da mesi ma
una indisposizione
di Maria ci impedì
di rispettare
l’appuntamento e
così debuttammo ad
Amburgo, che invece
era la seconda tappa
del tour.
<<Ad Amburgo
trovammo un pubblico
straordinario. Il
grande Auditorium
del centro dei
Congressi, dove
tenemmo il concerto,
è un teatro con una
acustica perfetta.
Era esaurito in ogni
ordine di posti,
anche se il
biglietto era molto
caro. C’erano
spettatori venuti da
ogni parte del mondo
anche dal Giappone.
C’erano molti cari
amici, come Liz
Taylor con la figlia
Liza, Rossellini,
Patroni Griffi e al
termine del concerto
vennero in camerino
per le
felicitazioni>>.
<<Come reagì il
pubblico durante
quella tournée>>.
<<Con entusiasmo.
Ovunque, ma
soprattutto a
Parigi, Londra e New
York, dove Maria
aveva ammiratori
fanatici. La critica
invece si mostrò
ostile. Non era mai
accaduto che
cantanti famosi e
tramontati,
tornassero alla
ribalta. Maria,
negli anni in cui
non aveva cantato,
essendo vissuta
accanto a Onassis,
era stata un
personaggio della
cronaca mondana.
Contro di lei
c’erano pregiudizi e
invidie, per questo
i critici si
dimostrarono
cattivi>>.
<<E il tuo
giudizio sulla
Callas di quei
concerti?>>.
<<Positivo. La
Callas era ancora
straordinariamente
dotata. Certo, gli
anni erano passati
anche per lei, ma
restava ancora una
delle migliori
cantanti. In
America, durante
alcuni concerti di
quella tournée,
cantò come vent’anni
prima. Maria aveva
un temperamento
emotivo, aveva
bisogno della
presenza del
pubblico per
caricarsi.
All’inizio, aveva
paura, era insicura,
poi prese forza,
migliorando
continuamente.
All’ultimo concerto
era perfetta. I
critici cercarono il
pelo nell’uovo
dimostrandosi poco
intelligenti. L’arte
vera non sta nella
nota emessa bene, ma
nell’anima e nella
passione. Maria
metteva il fuoco nel
suo canto, metteva
irruenza, istinto,
era proprio questo
che la distingueva
da tutti gli altri.
Quando cantava era
un vulcano in
eruzione>>.
<<Era un vulcano
anche nella vita
privata?>>.
<<Al contrario. Era
semplice e
umanissima. Non era
una cantante
ventiquattro ore al
giorno. Se lo fosse
stata, sarebbe stato
impossibile vivere
vicino a lei. Quando
saliva sul
palcoscenico, veniva
rapita dalla furia
artistica. Subiva
una specie di choc.
E andava soggetta a
quei famosi “scoppi
di temperamento” che
la resero famosa in
tutto il mondo>>.
<<E’ vero che
durante la tournée
avete litigato?>>.
<<Sì, è vero. Ma
litigavamo per
stupidaggini. Erano
semplici scontri di
due caratteracci. I
“battibecchi” non
avevano conseguenze.
La mia grande
ammirazione e la mia
profonda stima per
Maria mi impedirono
sempre di tenerle il
broncio. Anche negli
anni d’oro della
nostra carriera. Una
volta, cantando con
lei in Messico,
piantai tutto e me
ne andai. E così
feci alla Scala,
dopo la “prima” di
Traviata, nel 1955.
Ma me ne andavo
senza rancore. Io mi
arrabbiavo solo
quando sentivo
cantar male. Ma con
la Callas questo non
è mai accaduto>>.
<<Nel 1973 voi
due insieme avete
anche tentato un
esperimento di
regia, e la critica
vi ha stroncato in
modo violento>>.
<<Molto si è scritto
sulla nostra regia
dei “Vespri
siciliani” per
l’apertura del Nuovo
Teatro Regio di
Torino. Anche in
quell’occasione, ai
critici non pareva
vero di poter
prendersela con due
famosi artisti. La
nostra regia non fu
brillante. Ma
avevano mille scuse
in nostro favore. Il
teatro nuovo non era
ancora finito.
Avemmo poco tempo
per provare. C’erano
polemiche tra
dirigenti e artisti.
Ci fu anche
l’improvvisa
sostituzione del
direttore
d’orchestra. In
mezzo a simili
difficoltà, nessuno
avrebbe potuto fare
meglio di noi.
<<Ma la cosa
importante che
nessuno mise in
evidenza allora, sta
nel fatto che noi
volemmo esprimere
una nostra
concezione della
regia di opere. I
registi di quel
tempo avevano delle
teorie che noi non
condividevamo. Loro
volevano il
movimento in scena.
Mentre tenori e
soprani cantavano,
facevano passare sul
palcoscenico pecore,
cavalli, cani,
storpi: di tutto,
purchè di fosse
movimento. Secondo
loro, l’orchestra e
il canto avrebbero
dovuto fare da
sottofondo alle
scene, come la
colonna sonora di un
film. Niente di più
sbagliato.
Nell’opera lirica
contano la musica e
i cantanti. Noi
tentammo di
difendere l’opera
lirica. Eravamo
degli istintivi,
forse non colti come
gli altri registi
alla moda, ma in
fatto di musica
pochi potevano
parlare con
cognizione di causa
come noi due>>.
<<Su quella
tournée corsero
molte voci. Si disse
che in realtà fu
solo una scusa per
nascondere un vostro
grande amore. Tu non
hai mai voluto
parlare di questa
vicenda. Ma ormai è
passato tanto tempo,
potresti chiarire
finalmente i
dubbi>>.
<<E’ un argomento
che mi mette in
imbarazzo>>, dice Di
Stefano dopo una
breve pausa di
silenzio. <<Non mi
sento a mio agio
nelle conversazioni
che coinvolgono i
sentimenti più
profondi. Ho
l’impressione che a
renderli pubblici si
commetta una
profanazione, per
questo ho sempre
rifiutato di
affrontare questo
tema.
<<Dopo la morte di
Maria, tutti mi
chiedevano di lei,
della nostra vita
insieme. Diversi
editori volevano che
scrivessi un libro,
ma ho sempre
rifiutato. Non ho
mai voluto parlare
di queste vicende.
Neppure quando la
mia ex moglie ha
scritto un libro
accusando la Callas
di essere stata la
rovina del nostro
matrimonio. Non ho
letto il libro nè
mai ho risposto alle
accuse.
<<Ma ci sono state
poi alcune accuse
ancora più gravi,
che mi hanno ferito
profondamente.
Alcuni critici e
alcuni biografi
della Callas hanno
scritto che io avrei
approfittato della
sua fama per farmi
pubblicità; che
avrei organizzato la
famosa tournée del
‘73, quando la
Callas non aveva più
la voce di un tempo,
solo per soldi, per
vendere il suo nome.
Sono accuse ignobili
e ingiuste. La
verità è che
organizzai quei
concerti per aiutare
Maria a vivere e a
tornare nel mondo
del canto, dove
forse poteva trovare
ancora un po’ di
felicità.
<<Quei concerti
hanno rappresentato
la “salvezza fisica”
per la Callas e sono
una testimonianza
artistica
estremamente
interessante, come
si può ricavare
dalle incisioni che
sono in
circolazione. Io e
Maria formavamo una
coppia perfetta.
Così perfetta che
solo io mi ero
accorto della
disperazione in cui
era caduta quando
Onassis l’aveva
lasciata per sposare
Jacqueline Kennedy.
Era stata
dimenticata dal
mondo artistico, dai
suoi amici fasulli,
dal jet set che
l’aveva sfruttata
quando era famosa.
Maria si sentiva
tremendamente sola e
voleva morire. Io ho
capito il suo dramma
e le ho voluto bene
proprio in quel
periodo. Perchè
sapevo che solo il
canto avrebbe potuto
darle speranza>>.
<<Quindi vi siete
amati?>>.
<<Sì, ci siamo
amati>>.
<<Come avvenne
l’incontro
fatale?>>.
<<Niente di
straordinario,
niente di fatale.
Alla fine del 1972
io ero a New York di
ritorno dalla Corea,
dove avevo fatto una
tournée. Gli
organizzatori mi
aveva chiesto di
tornare con un
soprano e mi avevano
fatto il nome della
Callas, offrendo per
lei diecimila
dollari a concerto.
Maria non cantava da
tempo e non pensavo
neppure di riferirle
quella proposta. Ma
a New York, un
comune amico a cui
avevo confidato quel
progetto, mi disse:
“Telefoniamo subito
a Maria che è qui”.
Telefonò lui, ma la
Callas non era in
albergo e lasciò un
messaggio dicendo
che Di Stefano la
stava cercando. Io
allora le mandai dei
fiori. Quella sera
ero a casa
dell’attore Ben
Gazzarra che aveva
organizzato una
festa per me. A un
certo momento la
Callas telefonò.
Disse a Ben che mi
aveva cercato
dappertutto e lui le
rispose: “Te lo
mando subito”. Non
volevo lasciare la
festa. Ben disse:
“Maria è più
importante”.
Raggiunsi l’albergo
e salii. Bussai alla
porta di Maria che
mi aprì con un
grande sorriso e
disse: “Lo so, tu mi
hai sempre voluto
bene”. E io: “Queste
tue parole allora mi
autorizzano a
entrare”. Entrai e
nacque la nostra
avventura
sentimentale>>.
<<Com’era la
Callas allora? Come
donna, intendo>>.
<<Distrutta,
completamente a
terra. Mi ripeteva:
“Ogni giorno che
passa è un giorno di
meno che mi resta da
vivere”. “Devi
riprendere a
cantare”,
rispondevo. “Non ho
più voce”, si
lamentava. “Se
canti, la voce
tornerà”, ribattevo.
<<Il giorno dopo
andammo dalla
pianista con la
quale ogni tanto
studiava. Maria si
avvicinò al
pianoforte e tremava
come una foglia.
Cominciò a cantare e
non aveva un fil di
voce. Allora
l’abbracciai e le
dissi: “Usciamo,
andiamo a fare una
passeggiata al
Central Park”.
Piangeva, era
tremendamente
emozionata, era come
un bambino
spaventato. Non mi
lasciava un momento.
La sera successiva
avevo un concerto a
New York, e lei
rimase sempre nel
mio camerino>>.
<<Come l’hai
convinta a tornare
sul palcoscenico?>>
<<Mi resi conto che
solo il canto poteva
ridargli la voglia
di vivere.
Continuavo a
ripetere che doveva
vincere la paura e
riprendere il
contatto con il
teatro. Poi tornai
in Italia perchè
dovevo cantare
“Carmen” e lei venne
a trovarmi a
Sanremo, dove avevo
un appartamento. Con
la sua auto andammo
alla spiaggia dove
avevo la barca e
scoprimmo che barca
e auto avevano la
stessa targa.
L’auto: Parigi 1345.
La barca: Imperia
1345. In quel
particolare Maria
vide un segno del
destino. Si legò
ancor più a me e
accettò di fare una
tournée di
concerti>>.
<<Il vostro fu
vero amore?>>
<<Fu grande amore.
Avevamo un’intesa
perfetta che ci
permetteva nello
stesso tempo di
restare liberi. La
nostra non era solo
passione, la nostra
era tenerezza
infinita, complicità
artistica ad
altissimo livello,
voglia di rivincita,
amore maturo.
Un’avventura che non
si può descrivere e
che non ho mai
dimenticato>>.
<<Ma poi, se non
sbaglio, è finita
male>>.
<<Durò tre anni.
Maria non era una
donna facile. Aveva
un carattere
complicato. Non
seppe accontentarsi,
aspettare. La vita è
sempre un
imprevisto. Nessuno
sa mai perchè
avvengono tante
cose. Io e Maria non
avevamo preventivato
di incontrarci e non
pensavamo che
andasse a finire
come è finita>>.
<<Quando ti sei
accorto che la
vostra storia si
stava
deteriorando?>>.
<<Il giorno in cui
mi sono sentito
tanto felice. Mi
pareva che la nostra
intesa fosse proprio
perfetta. E subito
mi sono detto: “E’
troppo bello, non
può durare”. Maria,
quando amava, era
possessiva,
invadente, affamata
e gelosa. Aveva una
gelosia feroce,
cieca. Era peggio di
Otello. Credo che
sarebbe stata capace
di uccidere per
gelosia. Ero ancora
sposato e lei era
gelosissima di mia
moglie. Non perdeva
occasioni per
punzecchiarmi
provocando reazioni
dolorose>>.
<<Perchè, data la
situazione, non ti
eri diviso da tua
moglie?>>.
<<In quel periodo
stavo vivendo un
terribile dramma
familiare. Avevo una
figlia, Luisa, di 19
anni ammalata di
tumore, che poi
morì. Maria mi restò
vicina in quella
tragedia ma non
seppe attendere.
Doveva capire che
quello non era il
momento per pensare
a divisioni,
separazioni o cose
del genere.
Bisognava attendere
che il tempo
rimarginasse le
ferite. Ma come ho
detto, lei agiva
d’impulso come una
bambina, commettendo
gravi errori che io
non potevo
accettare>>.
<<Per esempio?>>.
<<Voleva che tutti
sapessero della
nostra situazione.
Durante la tournée,
dopo una serie di
concerti in giro per
l’America, tornammo
a New York per un
concerto in quella
città. C’era
grandissima attesa.
Tutti ci aspettavano
con il fucile
puntato, per
controllare se
eravamo all’altezza
della nostra fama.
Bisognava restare
concentrati, pensare
solo al canto.
Invece lei si
distraeva. Accettò
di fare
un’intervista alla
televisione per
parlare degli uomini
della sua vita.
Raccontò che erano
tre: il marito,
Giovan Battista
Meneghini,
Aristotele Onassis
ed io. Venne ad
avvertirmi che la
televisione avrebbe
mandato in onda
quell’intervista e
io andai su tutte le
furie.
<<Sapevo che una
notizia del genere
avrebbe scatenato la
stampa. Allora presi
il telefono chiamai
mia moglie a Milano
e la feci venire
immediatamente a New
York. Successe il
finimondo. La Callas
era inviperita. A
mia moglie non
sembrava vero di
poterla fare
arrabbiare. Alla
fine la Callas
cedette, si riempì
di barbiturici e si
svegliò alle cinque
del pomeriggio del
giorno dopo,
incapace di reggersi
in piedi. E così non
si fece il concerto.
<<Ero fuori di me.
Le dicevo: “Tu sei
la Callas, tu
rappresenti il
canto, non puoi
permetterti cose del
genere”. Ci siamo
arrabbiati. Lei ha
fatto alcuni
concerti da sola poi
siamo tornati
insieme. Ma ne ha
subito combinata
un’altra. Mentre ci
preparavamo a
cantare, a mia
insaputa, chiamò
l’organizzatore e
gli disse:
“Continuerò la
tournée solo se la
moglie di Di Stefano
torna in Italia”.
Quando lo venni a
sapere persi le
staffe. Non potevo
ammettere che fosse
ricorsa a un
estraneo per dare
ordini a mia moglie.
Se voleva mandarla
via doveva ricorrere
a me. Non la
perdonai. Capì di
aver sbagliato e
venne a chiedermi
scusa. Ci
riconciliammo e
finimmo la tournée
ma ormai qualcosa
tra noi si era
incrinato per
sempre. Al termine
della tournée era
finita anche la
nostra intesa
sentimentale. Almeno
decidemmo noi di
mettere fine a
quella vicenda>>.
<<Nella tua lunga
carriera hai
conosciuto tanti
artisti grandissimi:
chi ti ha colpito di
più?>>.
<<La Callas resta un
personaggio unico.
Io credo che, con il
passar del tempo, la
sua fama andrà
aumentando e la
gente scoprirà che
la sua capacità
artistica era
veramente somma. Un
altro personaggio
che mi ha
profondamente
affascinato fu
Arturo Toscanini.
Averlo conosciuto e
aver cantato con lui
è stata una
autentica fortuna.
Lo adoravo. Ma
poichè sapevo che
aveva un
caratteraccio non
volevo cantare con
lui: temevo perdesse
la pazienza e mi
costringesse a
mancargli di
rispetto. Lui mi
cercava e mi voleva,
ed io lo sfuggivo.
<<Un giorno,
all’inizio della
carriera, arrivai a
New York. Appena
salito in camera, in
albergo, squillò il
telefono. Rispose il
mio maestro, il
baritono Montesanto.
Era Toscanini al
telefono. Mi aveva
sentito cantare alla
radio e disse: “Quel
ragazzo canta come
piace a me, senza
smancerie, questa
sera lo voglio qui a
casa mia”. Non potei
rifiutare.
Diventammo subito
amici. L’anno
successivo mi voleva
per il ruolo di
Felton nel
“Falstaff” di Verdi,
ma io ero occupato e
non potei andare.
Nel 1951 mi richiamò
per il “Requiem” di
Verdi che diresse
alla Carnee Hall di
New York in
occasione dei
cinquant’anni della
morte del maestro e
fu un’esperienza
bellissima. Ricordo
che durante le prove
si faceva portare
dei grossi salami:
li affettava lui
stesso per farceli
mangiare a merenda.
Con noi cantanti era
come una madre. Al
termine di quella
esecuzione, ,o
regalò una medaglia
d’oro. Su un lato vi
è il volto del
compositore e sul
rovescio la
dicitura: “A
Giuseppe Di Stefano
in ricordo” e la
firma autografa di
Arturo Toscanini.
Di Stefano mi fa
vedere la medaglia
che porta al collo.
<<Non me ne separo
mai>>, mormora
stringendola tra le
dita..
<<Dicono che tu
ami molto il
gioco?>>.
<<Purtroppo è vero.
Mi piace giocare e
al gioco ho perso
una fortuna. Io
gioco solo alla
roulette. E’ un
gioco dove conta
solo la fortuna, il
caso. Non ci vuole
nessuna
partecipazione del
cervello. Non ho mai
giocato a poker, nè
a “chemin de fer”.
Non mi piace giocare
contro la gente.
Nella roulette
invece si gioca
contro la macchina e
questo mi affascina.
Alla roulette è
facile vincere. C’è
sempre un momento in
cui si guadagna.
Basterebbe fermarsi
in quel momento per
evitare disastri
economici, ma io non
ho mai saputo
resistere alle
tentazioni e così ho
perduto miliardi.
Quando comincio a
giocare ci sto
giorni e notti
intere. Vengo preso
dal vortice di
quella pallina che
gira. Non riesco a
sottrarmi al suo
influsso. Mi sembra
un diavolo che a
volte mi parla, mi
incita, mi promette
vincite, mi caccia
via.
<<Sulla porta di
casa mia, a Sanremo,
c’erano segnati tre
numeri: uno, zero,
tre. Sono
combinazioni che mi
hanno sempre fatto
impazzire. Quasi
sempre, quando viene
fuori l’uno subito
dopo viene fuori lo
zero e poi il tre.
Oppure, prima viene
il tre poi lo zero
poi l’uno. Questi
numeri mi hanno
mangiato un sacco di
soldi. Ma sapere che
quasi sempre si
verificano queste
misteriose
combinazioni, è una
cosa estremamente
affascinante alla
quale non sono mai
riuscito a
resistere. Del resto
se fossi diverso,
non sarei Pippo Di
Stefano>>.
<<Giochi
ancora?>>.
<<E come no? In
Africa, vicino a
dove abito, c’è un
casinò. Il lupo
perde il pelo, il
vizio mai!>>.
Questa l’intervista
che mi diede allora.
Ha continuato a
vivere felice con la
moglie Monika.
D’inverno emigrava
in Kenia e d’estate
tornava per alcuni
mesi in Italia. Ci
telefonavamo.
L’ultima volta lo
vidi nel novembre
del 2004. Andai a
salutarlo perché
partiva per il Kenia.
<<Ci rivedremo in
primavera>>, gli
dissi
abbracciandolo.
<<Tornerò come
sempre con le
rondini>>, rispose
felice.
Non lo vidi più.
Partì per il Kenia
il 29 novembre al
mattino. Arrivò
nella sua villa a
Mombasa nel
pomeriggio. Era con
la moglie e un
amico. Stanchi per
il viaggio, andarono
a riposare un paio
d’ore. A sera, si
prepararono per
andare a cena in un
ristorante. Uscirono
di case e videro nel
giardino degli
indigeni che
venivano verso di
loro correndo. Di
Stefano li salutò
festoso. Pensava
fossero dei suoi
ammiratori che
venivano a dargli il
benvenuto, come
accadeva sempre
quando arrivava per
le vacanze. Invece,
erano dei banditi,
dei ladri.
Estrassero delle
rivoltelle e sotto
la minaccia delle
armi tolsero a lui,
a sua moglie Monika
e all’amico
italiano, tutto ciò
che avevano di
prezioso: orologi,
denaro, anelli,
bracciali, catenine
<<Stiamo calmi>>,
ripeteva Di Stefano,
sapendo che anche
una minima reazione
poteva provocare una
tragedia. Ma quando
un bandito tentò di
colpire uno dei suoi
cani, reagì si prese
un violento pugno in
faccia. Poco dopo,
il bandito tentò di
strappargli la
medaglia di
Toscanini e Di
Stefano gridò “no,
questa no” cercando
di proteggerla con
le mani, ma il
bandito lo colpì
violentemente e il
tenore perse
l’equilibrio e cadde
per terra battendo
la testa. Il bandito
infierì ancora
contro di lui con
dei calci, poi gli
strappo la catenina
con la medaglia
d’oro di Toscanini e
fuggì con i suoi
complici.
Di Stefano aveva
perso i sensi. Lo
portarono
all’ospedale. Era in
coma. Fu operato al
cervello. Dopo un
mese venne
trasferito in
Italia. Uscì dal
coma, ma non si
riprese. Da allora,
è vissuto immobile,
senza memoria, senza
poter parlare, in
una specie di coma
vigilie, e doveva
essere alimentato da
una macchina.
Per fortuna ha
sempre avuto accanto
la moglie, Monika
Curth, soprano
tedesco, che aveva
sposato in seconde
nozze. Un vero
angelo che non ha
mai abbandonato il
tenore infermo
neppure per un
momento. Per più di
tre anni è stata la
sua infermiera,
pronta a servirlo
personalmente in
tutto, giorno e
notte e sempre con
amore infinito e il
sorriso sulle
labbra.
Inseparabili, fino
all’ultimo respiro
che di Stefano ha
emesso alla 8.30 di
lunedì 3 marzo,
2008, mentre Monika
gli accarezzava il
volto.
Renzo Allegri