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Il tenore
Carlo Bergonzi è stato festeggiato sabato
11 dicembre al Teatro La Fenice di Venezia,
con la consegna del premio “Una vita nella
musica - Artur Rubinstein”. Nato 86 anni fa,
a Vidalenzo di Polesine Parmense, un paesino
a due chilometri da Busseto, città natale di
Giuseppe Verdi, Bergonzi è ritenuto il più
grande interprete delle opere verdiane.
<<Sono
particolarmente felice di questo premio>>,
dice il tenore. <<A Venezia mi legano
ricordi importanti. Nel 1957 interpretai
“Cavalleria Rusticana”, allestita in Piazza
San Marco. In quell’occasione, incontrai
Angelo Roncalli, che era patriarca di
Venezia e l’anno successivo sarebbe
diventato Papa con il nome di Giovanni XXIII.
Poi, interpretai il “Requiem” di Verdi a
Palazzo Ducale con la direzione di Herbert
Von Karajan. Al Teatro La Fenice interpretai
due edizioni di “Aida”, e “Un ballo in
maschera”. Per me, La Fenice è il più bel
teatro che ci sia al mondo, un vero gioiello
artistico>>.
Il
premio, “Una vita nella musica”, è
prestigioso perché vanta una storia
trentennale. E’ stato fondato da Bruno Tosi,
musicologo veneziano appassionato di lirica,
conoscitore di tutti i grandi interpreti e
in particolare di Maria Callas, alla quale
ha dedicato libri e mostre, ed è diventato
un premio di fama internazionale. E’ stato
attribuito ai più grandi protagonisti del
mondo musicale del nostro tempo. Da Artur
Rubinstein, il primo, nel 1979, che ha dato
il proprio nome al Premio stesso, seguito da
personaggi mitici quali Andrès Segovia, Karl
Bohem, Carlo Maria Giulini, Yehudi Menuhim,
Mistislav Rostropovic, Gianandrea Gavazzeni,
Leonard Bernstein, Isaac Stern, Maurizio
Pollini, Claudio Abbado, Salvatore Accardo,
Zubin Mehta, eccetera. Non poteva mancare
Carlo Bergonzi, che alla musica lirica ha
dedicato letteralmente tutta la sua lunga
esistenza, avendo iniziato a cantare
romanze verdiane da ragazzino e continuato
poi fino a ottant’anni. E ancora oggi,
quando, in casa sua, si mette al piano e
canta, sfoggia una voce e una intonazione
perfette.
<<A
nove anni, mio padre mi portò a vedere il
“Trovatore”, nel piccolo Teatro di Busseto>>, dice Bergonzi. <<Ne rimasi
sconvolto. Da allora, lavorando, continuavo
a cantare “Di quella pira”. Era proprio
destino che diventassi un cantante lirico>>.
Il 31
agosto scorso, il maestro Bergonzi è stato
premiato all’Arena di Verona con L’Oscar
della lirica. Ora,a Venezia, oltre al
premio “Una vita nella musica”, ha ricevuto
un riconoscimento anche dal Presidente della
Repubblica, Giorgio Napolitano, una
medaglia d’oro, con una dedica che lo stesso
Napolitano ha voluto dettare: “Al maestro
Carlo Bergonzi, interprete sommo del
repertorio verdiano, e custode illustre
della tradizione belcantistica italiana”.
Bergonzi è veramente un personaggio unico,
il cui valore artistico, nel campo della
lirica, non ha paragoni. Secondo i critici
di tutto il mondo, è stato il tenore
verdiano per eccellenza. Forse il più fedele
e autentico interprete delle opere del
“cigno di Bussetto” di tutti i tempi. Certe
pagine verdiane come le ha interpretate lui,
non le interpreterà più nessun altro.
L’atmosfera di commozione, di magia che
riusciva a creare con la sua voce incantando
le platee più esigenti ed esperte, resterà
irripetibile.
L’origine di questo artista è contadina. Non
ha avuto la possibilità di frequentare
scuole importanti. Anzi, come egli stesso
racconta, nel canto non ha proprio avuto
maestri di nessun genere. Si è fatto da
solo. Ma, forse, essendo nato nella terra di
Verdi, avendo respirato l’aria che respirava
Verdi, potrebbe essersi verificato un magico
e misterioso fenomeno di osmosi: il grande
compositore potrebbe avere trasmesso al
ragazzo Bergonzi quelle intuizioni, quei
segreti, quegli accorgimenti tecnici e
stilistici che gli hanno permesso poi di
indicare vie rivoluzionarie
nell’interpretazione delle opere del
maestro.
Bergonzi non è solo il tenore dal timbro
caldo e squillante, dalle mezze voci
mirabolanti, dai falsetti insinuanti e
torniti, dalla garbatezze danzanti e
suadenti, è il maestro geniale, che ha
rivoluzionato il modo di interpretare
l’opera verdiana. Nessuno meglio di lui ha
posseduto l’accento verdiano, la “verità
verdiana” che risuona nel canto. Ai ritmi
incalzanti, agli acuti trionfanti, alle
melodie popolari e spontanee del compositore
bussetano, Bergonzi ha dato un’anima, una
eleganza, una regalità che restano tributo
ineguagliato nella storia.
Nato,
cresciuto e vissuto sempre a Busseto, da un
po’ di tempo Bergonzi si trova nel suo
appartamento milanese. <<Ho qualche
difficoltà a camminare>>, dice. <<Fino a tre
anni fa ero un terremoto. Pronto ad
affrontare lunghi viaggi senza pensarci.
Dopo aver smesso di cantare, mi ero dedicato
all’insegnamento. Avevo la mia Accademia di
Belcanto a Busseto, dove venivano allievi da
tutto il mondo. Ma tenevo corsi anche
all’estero, in Russia, in Giappone, e
perfino in Cina. Un giorno sono caduto e mi
sono rotto tre costole, poi ho avuto un
embolia polmonare, poi l’ernia al disco: ho
capito che dovevo smettere. Ho chiuso tutto,
anche la mia Accademia di Busseto. Tutto
finito, quindi, ma ogni giorno ringrazio Dio
per tutto quello che mi ha dato e per avermi
conservato la mente lucida, fresca, con una
memoria da elefante, che mi fa sentire, a 86
anni, ancora giovane come un tempo>>.
E
approfittando della sua prodigiosa memoria,
abbiamo chiesto al maestro Bergonzi di
ricordare, in questa lunga ed esclusiva
intervista, i momenti più importanti della
sua vita e della sua carriera.
<< Mio
padre faceva il casaro e io cominciai a
lavorare con lui quando avevo sei anni>>,
racconta il maestro. <<Anche se eravamo
povera gente, senza studi e senza cultura,
Verdi e la sua musica riempivano il nostro
cuore. Nel caseificio, dove iniziavamo a
lavorare alle quattro del mattino, le arie
verdiane erano l’espressione della nostra
gioia di vivere e confortavano la monotonia
della dura fatica>>.
E’ vero
che la musica verdiana ce l’hai sempre avuta
nel sangue, quasi ti fosse stata trasmessa
geneticamente?
<<Non
saprei rispondere. Nella mia famiglia non ci
sono mai stati musicisti o cantanti
professionisti. E’ un fatto però che ho
sempre amato svisceratamente Verdi, fin da
bambino. Quando sentivo mio padre e gli
altri contadini cantare le romanze dalle
opere di Verdi, restavo incantato ad
ascoltare. Le imparavo subito e continuavo a
cantarle anch’io con passione. Come ti ho
già detto, a nove anni mio padre mi portò a
teatro e vedere “Il Trovatore” e rimasi
sconvolto. Giurai a me stesso che sarei
diventato un cantante lirico. E da allora
non ho avuto altri scopi nella mia vita>>.
E’
stato difficile realizzare questo sogno?
<<All’inizio le difficoltà sono state molte.
Non di tipo musicale. Sembrava però che
intorno a me ci fosse una specie di congiura
per impedirmi la carriera musicale. I primi
ostacoli arrivavano dal fatto che io, dopo
la quinta elementare, avevo smesso di andare
a scuola e avevo cominciato a fare il casaro
insieme a mio padre. Quando poi, a 16 anni,
decisi di studiare canto, dovetti
riprendere i libri in mano e mi resi conto
che avevo dimenticato tutto. Fu molto duro
ricominciare da capo>>.
Chi ti
convinse a fare quella scelta?
<<Cantavo facendo il
formaggio, e tutti dicevano che avevo una
bella voce. “Perchè non studi canto?”
azzardava qualcuno. All’inizio la proposta
mi sembrava assurda. Ma a forza di
sentirmela ripetere cominciai a prenderla in
considerazione. Ci fantasticavo sopra.
“Forse potrei farcela”, mi dicevo. Un giorno
andai a trovare un ex baritono di Busseto
per chiedere un giudizio tecnico sulla mia
voce. “Sei ancora troppo giovane”, disse.
“Ma la voce c’è. Potresti diventare
veramente un cantante”. Quelle parole
scatenarono la mia immaginazione e il mio
entusiasmo. Cominciai a fare progetti. E
cominciai anche a chiedere a mio padre di
poter riprendere gli studi>>.
E tuo
padre?
A lui
le difficoltà parevano insormontabili. Non
avevamo soldi. Il mio lavoro in cascina era
indispensabile. Comunque, non mi ostacolò.
“Prova”, disse. Continuai ad andare a
lavorare regolarmente, ma ripresi a
studiare. Tutto il tempo libero lo passavo
sui libri per superare l’esame di ammissione
al Conservatorio. E ce la feci. Fui ammesso
al Conservatorio “Arrigo Boito” di Parma. Al
mattino mi alzavo prima delle quattro e
andavo in cascina a fare il formaggio, poi,
prendevo il treno e andavo al Conservatorio.
Studiai canto, pianoforte e frequentai le
scuole medie per avere un po’ di cultura.
Furono anni preziosi per la mia formazione
anche se gli insegnanti non avevano capito
niente della mia voce>>.
In che
senso?
<<Dicevano che ero un baritono e mi fecero
studiare per quel registro. Grazie
all’intuizione dei miei insegnanti, per
dieci anni studiai e cantai convinto di
essere un baritono. Ma ancor prima di finire
la scuola, quando avevo poco più di 18 anni,
sulla mia strada si presentarono altre
difficoltà che insidiarono non solo la mia
voce ma anche la mia vita stessa>>.
Che
tipo di difficoltà?
La
guerra. Nel 1943 fui chiamato al servizio
militare. Mi mandarono a Mantova, nella
contraerea. E quando arrivò l’armistizio,
l’8 settembre sempre di quell’anno, i miei
compagni scapparono e tornarono quasi tutti
a casa. Io invece ero a letto con quaranta
di febbre, fui preso dai tedeschi, portato
in barella nel campo sportivo e da lì
spedito in Germania, destinato ai campi di
concentramento. Il viaggio verso la
Germania, durato tre giorni, in un treno che
serviva per il trasporto del bestiame, lo
feci con la febbre che mi divorava, senza
acqua e senza cibo. Fu un miracolo se
sopravvissi. Ma qualcuno, dal cielo,
certamente vegliava su di me>>
Quanto tempo sei rimasto prigioniero dei
tedeschi in Germania?
<<Ventisei mesi. Sono finito sul Baltico, ai
confini con la Polonia. Alloggiavamo in un
campo di baracche di legno e lavoravamo alla
costruzione di una linea ferroviaria.
D’inverno faceva molto freddo. Anche trenta
gradi sotto zero. Si mangiava da cani,
patate e brodo d’erba. Durante quei mesi mi
sono ammalato molte volte, ma non potevo
restare a letto. Andavo a lavorare
febbricitante. A volte la testa mi girava e
non vedevo neppure la strada, tanto ero
frastornato. Sono tornato a casa che pesavo
35 chili. Mia madre, quando mi vide, mi
guardava sospettosa. Non corse ad
abbracciarmi e continuava a ripetere: “No,
questo non è mio figlio”>>.
Giuseppe di Stefano e Mario Del Monaco mi
hanno raccontato che, durante la guerra,
loro, per il fatto che avevano una bella
voce e sapevano cantare romanze d’opera,
erano stati trattati bene, avevano evitato
sacrifici e fame. Tu non hai avuto questa
fortuna?
<<No.
In campo di concentramento non avevo quasi
neppure fiato per reggermi in piedi,
immagina se ne avevo per cantare. Alla fine
della guerra, invece, quando arrivarono i
russi a liberarci dal Lager, la voce
probabilmente mi salvò la vita. Mi ammalati
di tifo e non c’erano medicine per curarlo.
Ero divorato dalla febbre e credevo proprio
di morire. Un giorno i prigionieri
organizzarono una festa per i soldati russi
e io, nonostante la febbre, volli cantare
alcune romanze. In prima fila c’era un
capitano sovietico, amante di lirica, che si
entusiasmò della mia voce e mi prese subito
sotto la sua protezione. Il giorno dopo mi
invitò a mangiare alla mensa ufficiali.
Saputo che ero ammalato, mi fece visitare da
un medico di sua fiducia e mi fece curare
con delle medicine vere. Credo che quel
capitano mi abbia veramente salvato l vita.
E purtroppo non ho mai potuto ringraziarlo.
<<Mentre ero ancora ammalato, arrivò la
tradotta che doveva riportarci in Italia. I
miei compagni si prepararono per il viaggio,
ma io non potevo partire in quanto ero
ammalato e ricoverato in isolamento. Ma i
miei compagni non vollero lasciarmi là.
Vennero a prendermi di notte e mi nascosero
sul treno. Così partii senza poter salutare
quel capitano che mi aveva fatto curare. Se
lo avessi fatto, mi avrebbe certamente
impedito di viaggiare in quelle condizioni e
sarei dovutorimanere>>.
Al
ritorno hai naturalmente ripreso a studiare
canto.
<<Immediatamente e con più grinta di prima.
Dopo tutto quello che avevo sofferto, volevo
spaccare il mondo. Conclusi i miei studi al
Conservatorio di Parma e poi mi trasferii a
Milano per tentare la fortuna. Milano era
anche allora la capitale di tutte le
iniziative, comprese quelle musicali.
<<Trovai alloggio in periferia. Nel ‘47,
qualcuno mi disse che c’era la possibilità
di debuttare nel “Barbiere di Siviglia” di
Rossini. Non era una grande occasione. Si
trattava di cantare in un teatrino
parrocchiale, a Varedo, piccolo centro
dell’hinterland milanese. Comunque era
sempre un debutto e mi pagavano anche.
Accettai.
<<Facemmo poche prove. Il direttore era un
certo Lomonaco. L’orchestra era costituita
da un contrabbasso, due violini, un flauto,
il pianoforte e la grancassa. La quinte del
palcoscenico erano di carta. Quando uscii
con la chitarra per cantare “Largo al
factotum”, il manico della chitarra si
impigliò in una quinta io, preoccupato e
confuso per il debutto, non me ne accorsi e
tirai giù tutto. La gente rideva, fischiava,
lo spettacolo venne sospeso e, dopo aver
ricostruito lo scenario, si riprese tutto da
capo. Per fortuna non accaddero altri
incidenti e alla fine ebbi anche successo>>.
Così
debuttasti come baritono.
Non
solo debuttai, ma per tre anni continuai a
cantare da baritono. In genere sostenevo
parti secondarie, di secondo piano, ma
cantavo molto>>.
Tu hai
insegnato per molti anni: come ti spieghi il
fatto che nessuno si fosse accorto che,
dentro quella tua voce di baritono, si
nascondeva una meravigliosa voce di tenore?
<<Eravamo in tanti cantanti giovani, tanti
baritoni, tanti tenori, nessuno stava lì a
sottilizzare troppo. L’importante era
trovare una scrittura. Quando diventai un
tenore famoso, tutti i direttori d’orchestra
con i quali cantavo, da Serafin a Guarnieri,
da Gavazzeni a Votto, Capuana, Ghione, tutti
dicevano: “Lo sentivo io che aveva la voce
di tenore”. Ma in realtà, quando facevo il
baritono, nessuno mi disse mai niente>>.
Pensi che aver cantato per tre anni da
baritono abbia nuociuto alla tua voce di
tenore?
Al
contrario, ha fatto molto bene. Ho rassodato
le note gravi, preparando un solido
trampolino di lancio per i futuri acuti. E’
come se, dovendo costruire un palazzo,
avessi posto delle fondamenta massicce in
cemento armato. Quando passai al registro di
tenore avevo una struttura basilare di
straordinaria potenza>>.
Chi ti
ha convinto a compere quel passaggio?
<<Nessuno. Ho fatto tutto da solo. E in gran
segreto anche. Mi accorsi che la voce
faticava nei ruoli baritonali. Sentivo che
non ero a mio agio in quel registro. Invece
avevo una grande facilità nell’affrontare
gli acuti. “Vuoi vedere che sono un tenore”,
mi dicevo. E ruminavo dentro di me questo
problema. Due erano le possibili soluzioni e
tutte e due pericolose. O facevo finta di
niente e continuavo a cantare da baritono
con la certezza che sarei rimasto sempre un
mediocre, un cantante di seconda categoria;
oppure tentavo di passare al registro
tenorile con l’incognita però di fallire e
quindi di essere costretto a chiudere la
carriera lirica e tornare a fare il
formaggio. Decisi di tentare.
<<Eravamo nell’estate del 1950. Portai a
termine gli impegni già presi e poi
cominciai a lavorare per “registrare” la mia
voce. Non avevo confidato i miei problemi a
nessuno, neppure a mia moglie Adele.
Approfittando che aspettava un bambino, la
consigliai di andare a vivere da sua madre,
così a Milano potevo dedicarmi alla mia
“trasformazione”. Lavoravo da solo, senza
maestri, con un metodo che mi ero inventato
io. Avevo come supporto solo il diapason,
cioè quel piccolo strumento acustico che
produce una sola nota, il “la”, e serve per
accordare gli strumenti. Me ne servivo per
“accordare” le mie corde vocali. In tre
mesi, guadagnando un quarto di tono al
giorno, diventai tenore. Allora preparai due
opere, “Aida” e “Andrea Chenier” e andai a
farmi sentire da un impresario che mi
propose delle recite di “Andrea Chenier” a
Bari. “Mi sta bene”, risposi. Il 12 gennaio
1951, debuttati come tenore al Petruzzelli
di Bari ottenendo un buon successo. Quello
stesso giorno nacque mio figlio Maurizio.
Cominciò così la mia carriera come tenore>>.
Hai
superato quel problema da solo: quindi come
tenore sei un autodidatta.
<<Proprio così. Non ho avuto maestri e
neppure insegnanti. Ho fatto tutto da solo.
Ho studiato la mia voce, ho inventato il
metodo per alleggerirla, per rafforzare gli
acuti. Di fronte ad ogni difficoltà
riflettevo e cercavo di trovare una
soluzione tecnica che mi andasse bene.
<<A
questo lavoro però, sia pure inconsciamente,
mi ero preparato da tempo. Sembrava che
dentro di me sentissi che avrei dovuto
incontrare dei problemi del genere. Infatti,
durante i tre anni di attività come baritono
ebbi la fortuna di cantare accanto ai più
grandi tenori del tempo, Gigli, Schipa,
Pertile, Tagliavini, Masini, e continuavo a
chiedere loro consigli e informazioni.
Osservavo come vivevano, cosa mangiavano,
quali abitudini di vita tenevano. Prima
della recita, mi fermavo di fronte ai loro
camerini per sentire quali vocalizzi
facevano per scaldare la voce. Nei momenti
di pausa, in albergo, ero sempre accanto a
loro, li interrogavo. Insomma ero molto
curioso di tutto. Ebbi modo così di ottenere
consigli preziosi. Gigli mi parlava del
diaframma, dell’importanza di saper usare il
diaframma. Schipa mi decantava l’opportunità
di rispettare il repertorio adatto alla
propria voce. Ognuno mi dava un consiglio e
io mettevo dentro la mia memoria. Al momento
giusto tutte quelle informazioni diventarono
una miniera d’oro per me. Posso dire di
essere stato un autodidatta nel preparare la
mia carriera di tenore, confortato però e
aiutato dai consigli di quei miei grandi e
illustri colleghi>>.
Hai
dovuto fare una lunga gavetta prima di
raggiungere la definitiva affermazione?
;Un
colpo di fortuna mi ha portato subito alla
ribalta. A Bari, dove cantai “Andrea
Chenier”, c’era il direttore generale della
Rai, che fu molto colpito dalla mia voce.
Venne a trovarmi e mi fece un discorso di
questo genere: “Quest’anno, 1951, ricorrono
i cinquant’anni dalla morte di Verdi. Alla
radio faremo una grande stagione lirica
eseguendo tutte le opere del maestro di
Busseto. Abbiamo bisogno di alcuni tenori
giovani che siano pronti per sostituire i
grandi interpreti nel caso vengano colpiti
da qualche indisposizione. Io ti scritturo
per sei mesi, a 50 mila lire al mese. In più
ti faccio cantare in due opere: “Giovanna
d’Arco” e “I Due Foscari”, con un cachet di
50 mila lire a opera”. Mentre lui parlava,
mentalmente feci dei rapidi conti: 50 mila
lire al mese per sei mesi facevano 300 mila
lire; più altre cento mila per le due opere
si arrivava a un totale di 400 mila lire.
Una cifra per me iperbolica, inimmaginabile.
Ero pieno di debiti. Vedevo risolti d’un
tratto tutti i miei problemi economici.
“Benissimo, accetto volentieri”, risposi con
entusiasmo.
E
quello fu il più bel contratto della mia
vita. Anche perchè poi, in pratica, quasi
tutti i tenori titolari delle varie opere si
ammalarono e io li sostituii ottenendo
successo e soprattutto facendomi conoscere
nel mondo della lirica. Infatti, allora non
c’era la televisione. Gli appassionati di
lirica, gli addetti ai lavori, i direttori
d’orchestra ascoltavano le opere che
venivano trasmesse alla radio e così, in
quei sei mesi mi feci conoscere da tutti,
non solo in Italia ma anche all’estero, e la
mia carriera partì come un razzo>>.
Verdi, quindi, ti portò fortuna e diventasti
fin da allora il tenore verdiano per
eccellenza.
Per
la verità io cantavo di tutto. Avevo una
grande facilità a imparare le opere in
fretta. Per questo il mio repertorio
divenne, in poco tempo, vasto: 74 opere.
Avevo però una predisposizione per le opere
di Verdi. Infatti, le ho cantate tutte,
tranne due: “Otello” e “Falstaff”, per le
quali non mi sentivo portato>>.
Quali
opere verdiane hai cantato di più?
<<“Aida”, “Trovatore”, “Ballo in maschera” e
“Forza del destino”. Ma ho affrontato molto,
e con grande soddisfazione, anche “Luisa
Miller”.
I
critici riconoscono che, nella storia del
melodramma, il tuo modo di interpretare le
opere verdiane ha segnato una svolta. Tu hai
indicato percorsi nuovi, sensibilità
diverse, attenzioni speciali. Chi ti ha
guidato in questo ricerca?
<<Nessuno. Come ho detto, io sono un
autodidatta. Quando dovevo studiare una
nuova opera di Verdi, prendevo lo spartito e
lo esaminavo attentamente, frase per frase.
Mi sono accorto che Verdi ha indicato tutto
quello che l’interprete deve fare. Frasi
brevi, ma precise: “mezzavoce”, “due p”,
“tre p”, “col canto”, “rinforzato”,
“smorzando”, eccetera. Io riflettevo molto
su quelle indicazioni e poi cercavo di
eseguire la frase come era indicato. Tutto
qui>>.
Quali
sono i teatri dove hai cantato di più?
<<Metropolitan, Scala, Covent
Garden, Staatsoper di Vienna, Arena di
Verona, ma in pratica in tutti i teatri
importanti del mondo>>.
Ricordo che è stato memorabile il tuo
concerto di addio alla Scala nel 1993. Hai
iniziato con una canzone popolare: “Non ti
scordar di me”.
;Quel
teatro ce l’ho nel cuore. Anche se ho
cantato molto di più al Metropolitan, la
Scala è il teatro di casa mia. Iniziando
quel concerto ho voluto subito dire al
pubblico che non volevo essere dimenticato.
E il pubblico si è commosso, come del resto
lo ero anch’io.
Alla
Scala avevo debuttato il 25 marzo 1953,
quaranta anni prima. Non era stato un
debutto fantastico. Anzi. Interpretavo
un’opera nuova, il “Mas’Aniello”, di Jacopo
Napoli, e il pubblico non la gradì.
Continuava a rumoreggiare e a fischiare. Non
era facile cantare in quella situazione
perciò non ho un buon ricordo di quel
debutto. Poi però sono arrivate le opere del
mio repertorio “Aida”, “Trovatore”, “Forza
del destino”, “Un ballo in maschera”, che mi
hanno dato grandissime soddisfazioni.
<<Fin
dall’inizio io ero cosciente di non essere
un Adone. Bastava che mi guardassi allo
specchio per capire. Non avevo il fisico di
Corelli per intenderci. Quindi, se volevo
incantare il pubblico dovevo farlo solo con
la voce, con la magia del canto. E questa è
stata la mia arma. Anche alla Scala spesso è
accaduto che, dopo qualche aria, il pubblico
balzava in piedi, in delirio. Sono momenti
che non si possono dimenticare. Per questo,
in quel concerto d’addio, ho voluto iniziare
con la canzone “Non ti scordar di me”. Che
poi ho ripetuto anche alla fine. La stessa
canzone l’ho cantata anche nel concerto
d’addio al Metropolitan e il giorno dopo il
“Time” intitolava l’articolo di cronaca di
quel concerto: “No, non ti dimenticheremo
mai”>>.
Quanti
concerti d’addio hai fatto prima di
chiudere definitivamente la tua carriera?
Non lo
so. Diversi. Ho fatto il giro dei vari
teatri dove avevo cantato tante volte. In
alcuni teatri sono poi tornato a fare un
secondo concerto d’addio, e anche un terzo.
A Zurigo ho fatto quattro concerti
d’addio. All’ultimo, ho concesso sette
bis. Alla fine è venuto fuori il
sovrintendente, mi si è inginocchiato di
fronte, sul palcoscenico, con un mazzo di
fiori in mano e ha detto: “Questi sono per
il suo cinquantesimo anniversario di
carriera, ma anche per supplicarla di
tornare l’anno prossimo”.
Per
cinque anni sono passato da un teatro
all’altro tenendo concerti di addio. Ogni
volta giuravo a me stesso che era l’ultimo,
ma poi, dopo qualche mese, ecco un nuovo
appuntamento.
I direttori
dei teatri mi chiamavano, io mi sentivo
bene, la voce rispondeva, la voglia di
cantare era grande, e allora andavo. Certo,
non potevo ipotecare l’avvenire. Non firmavo
contratti. Dicevo: “Se mi sentirò bene,
verrò”. E sono andato avanti.
<<Un
estraneo non può capire che cosa significhi
per un artista smettere di cantare. Ci si
sente improvvisamente finiti, morti. E’
come se ti tagliassero le mani, le gambe, la
lingua. Per fortuna, io avevo la scuola che
mi permetteva di continuare a interessarmi
di lirica, di voci, di teatro, altrimenti
guai. Ma ad un certo momento ho dovuto
lasciare anche la scuola. La vita ha un suo
giro e bisogna rassegnarsi>>.
Qual è
il segreto di tanta longevità della tua
voce?
La tecnica. Come ti ho
detto, nel periodo in cui cantavo da
baritono continuavo a chiedere ai grandi del
tempo come allenavano la loro voce. La loro
esperienza è stata una regola di vita per
me>>
Quando
insegnavi nella tua Accademia, avevi
certamente dei “segreti” da trasmettere ai
tuoi allievi.
Nell’arte del canto, non esistono “segreti”,
ma esistono invece delle regole semplici e
fondamentali. Primo: imparare a respirare e
a usare il diaframma. Questo è basilare. E
lo si apprende soprattutto osservando e
ascoltando chi è veramente esperto nell’arte
di questo esercizio. Secondo: rispettare il
proprio ruolo vocale. Un campione di
atletica leggera specialista nei cento metri
non si metterà mai a gareggiare anche sul
miglio: sarebbe la sua fine. Così un
cantante lirico. Una volta c’erano le
categorie e venivano rispettate con
scrupolo. Solo per il registro tenorile
avevamo: il tenore di grazia; il tenore
leggero; il tenore lirico leggero; il tenore
lirico; Il tenore lirico spinto; il tenore
drammatico. E’ estremamente importante non
forzare la voce e quindi non uscire mai dal
proprio ruolo vocale. Purtroppo, oggi,
questa regola viene ignorata. Anche perchè
molti direttori artistici e direttori
d’orchestra non se ne intendono di voci. La
conseguenza è drastica. Ogni tanto sentiamo
parlare di un giovane con una bella voce.
Dopo cinque sei anni non lo si sente più
nominare. Dov’è finito? Lo hanno fatto
cantare opere non adatte ai suoi mezzi e si
è rovinato.
Una
terza regola importante è quella del regime
di vita. Il cantante deve condurre
un’esistenza serena, regolare, morigerata,
rispettosa dei cicli biologici, insomma
piena di sacrifici.
Un
giorno ero a pranzo con la figlia di Gigli.
In un tavolo accanto c’era suo padre con la
moglie. Alla fine del pranzo vedevo Gigli
che scriveva. “Tuo padre prende appunti”,
disse a Rina. E lei: “No, ha scritto sul
foglietto un ordine per il cameriere: il
giorno della recita non parla mai, neppure
una parola”.
Ero a
Buenos Aires. Verso le dieci e trenta uscii
dall’albergo per fare una passeggiata e
incontrai la grande Ebe Stignani con il
marito. “Signora, anche lei va a
passeggiare?”. “No, vado al ristorante”,
rispose. “A quest’ora?”. E lei mi raccontò
che il giorno della recita pranzava sempre
nove ore prima di andare in palcoscenico e
faceva un pranzo molto leggero. Glielo
avevano insegnato i vecchi cantanti,
trent’anni prima.
Era
un periodo in cui io accusavo piccoli
disturbi alla voce: un po’ di catarro,
pesantezza, opacità. Andavo a pranzo alle
due e mangiavo forte, perchè pensavo che
poi, alla sera, alla recita, avrei avuto
bisogno di tante energie. Volli provare il
consiglio di Ebe Stignani. Cominciai ad
andare a pranzo alle undici e mangiare
leggero. La voce tornò fresca, aerea,
squillante. Scoprii che si canta meglio a
digiuno. Da allora il giorno della recita ho
sempre pranzato alle undici del mattino.
Un
giorno ero a Salisburgo per interpretare il
“Requiem” di Verdi al celebre Festival.
Dirigeva Herbert Von Karajan. Poichè avevamo
avuto poche prove, il maestro ci chiese di
fare una ripassatina anche il giorno della
recita, alle undici del mattino. “Maestro”,
gli dissi “io non posso venire”. E, con
grande sincerità, gli raccontai che avevo
preso l’abitudine di mangiare, il giorno
della recita, una bistecca proprio a
quell’ora. Se avessi cambiato orario potevo
averne un danno. “Per carità”, disse Karajan
“vai a mangiare la bistecca, ti dispenso
dalla prova”. Alla sera feci una recita
stupenda. E mentre uscivamo a ringraziare il
pubblico che non finiva di applaudire,
Karajan, battendomi una mano sulla spalla,
mi disse: “Continua sempre a mangiare la tua
bistecca alle undici”>>.
Sei
stato molto amico di Karajan ed hai cantato
cose eccelse diretto da lui.
Il
maestro Karajan aveva molta stima di me e
per otto anni abbiamo lavorato bene insieme
poi i nostri rapporti si sono bruscamente
guastati. Eravamo a Berlino, ultima recita
di “Trovatore”. Venne in camerino un
assistente di Karajan e mi disse che il
maestro mi voleva alla Scala nei
“Pagliacci”. Non avevo mai interpretato
quell’opera e non me la sentivo di
debuttarla alla Scala, perciò rifiutai.
“L’ho ha detto il maestro”, ripetè,
meravigliato, l’assistente. “Un momento”,
risposi “adesso parlerò anch’io con
Karajan”. Poco dopo il grande direttore era
nel mio camerino. “Carlo”, disse “perchè
non vuoi fare i Pagliacci?”. “Maestro, non
vorrei debuttare in quest’opera alla Scala”,
obiettai. “Non ti devi preoccupare”, disse
lui. “Ti guido io”. “Ma sono io che canto e
non voglio rovinarmi”. Si arrabbiò. “Se tu
non accetti di fare i Pagliacci”, disse con
tono offeso “non canterai mai più con il
maestro Karajan” e uscì sbattendo la porta.
In quel momento tornai ad essere il “casaro”
di Busseto, il contadino che non accetta
soprusi di nessun genere. Balzai alla porta,
la aprii, presi Karajan per il bavero del
frac e lo tirai di forza nel camerino.
Chiusi la porta e fissando il maestro negli
occhi gli dissi: “Lei è un grande direttore
e mi dispiace non cantare più con lei. Ma io
per lei non mi rovino. E non mi faccio
neppure sbattere la porta in faccia”. Mi
girai dall’altra parte. Lui uscì e non lo
vidi più. Avevo un altro contratto con il
Festival di Salisburgo, che fu naturalmente
cancellato>>.
Hai,
quindi, litigato con Karajan. Eppure ho
sempre sentito dire che eri un’eccezione nel
tuo ambiente proprio perchè non hai mai
avuto scontri con nessuno dei tuoi
colleghi>>.
E’
vero, sono sempre andato d’accordo con
tutti. Anche con tutti i direttori
d’orchestra. Ma non significa che mi
lasciassi mettere i piedi sulla testa. Si
dice che i tenori tra di loro si sbranino.
Io sono stato amico di tutti i tenori del
mio tempo e uno dei più bei regali ricevuti
nel corso della carriera me lo ha fatto
proprio un tenore, Mario Del Monaco.
<<Cantavo a Parigi “Manon Lescaut” di
Puccini. Dopo “Guardate, pazzo son” nel
terzo atto, ho sentito partire dal pubblico
un “Bravo” che sembrava l’esultate
dell’”Otello”. Vado in camerino per
l’intervallo. Bussano, apro e arriva Mario
Del Monaco. “Lei mi ha dato un’emozione
grandissima. Mi ha fatto capire come deve
cantare Des Grieux. A novembre sarò al
Metropolitan di New York con due opere,
“Aida” e “Trovatore”. Mi piacerebbe farla
conoscere in quel teatro. Per questo, se lei
accetta, le cedo volentieri due recite”.
“Oh, grazie, grazie, è troppo gentile”,
risposi. Ero ormai abituato a sentire tante
parole senza che fossero poi seguite da
fatti e dimenticai subito quello che mi
aveva detto Del Monaco.
A
settembre cantavo a Livorno. Arriva nel
camerino il signor Bauer, che era il
rappresentante in Europa di Mister Rudolf
Bing, sovrintendente del Metropolitan. Mi
fece i complimenti e poi disse: “Ho una
proposta. Mario del Monaco a novembre le
cede due recite al Metropolitan: una di
“Aida” e una di “Trovatore”. Lei dovrebbe
trovarsi a New York ai primi di novembre per
assistere a un paio di spettacoli e vedere
come sono stati allestiti. Ci pensi e mi dia
una risposta”. Ricordai l’incontro a Parigi
con Del Monaco e rimasi stupefatto. Dissi a
mia moglie: “Io ci vado. Per lo meno faccio
un viaggetto in America”.
<<Arrivai a New York, seguii due recite e il
13 novembre mi presentai in camerino per
prepararmi al mio debutto in quel teatro. In
camerino trovai Mario del Monaco che era
venuto a darmi qualche consiglio. Volle
truccarmi personalmente e aiutarmi a
indossare il costume di Radames, che era
ancora quello usato da Caruso. Feci una
recita magnifica. Dopo il primo intervallo
arrivò Mister Bing con un contratto per tre
anni. Sarei certamente arrivato lo stesso al
Metropolitan, ma, sul piano umano, mi ha
fatto molto piacere essere presentato in
quel modo da Mario Del Monaco>>.
Sei
il cantante dei record: 50 anni di carriera,
37 stagioni al Metropolitan, 19 all’Arena
di Verona, 12 alla Scala di Milano, hai
cantato in tutti i più grandi teatri del
mondo e interpretato il “Requiem” di Verdi a
73 anni e lo hai inciso a 74. E, nella vita
privata, quali sono le conquiste di cui vai
fiero?
La
mia famiglia. Sono sempre stato molto legato
alla famiglia. Nonostante i successi e i
trionfi in palcoscenico, le gioie più belle
lo ho avute dalla famiglia. Prima di tutto
da mia moglie, Adele, che è sempre stata
accanto a me, mi ha seguito dappertutto,
aiutandomi a sopportare i grandi sacrifici
che questo mestiere impone. Poi i figli, che
sono cresciuti bene, uno è medico e l’altro
dirige il nostro l’albergo e ristorante “I
due Foscari”. E adesso anche i nipotini,
due, fantastici: Marta e Carlo. Grande è
stata la mia carriera artistica, ma più
grande la mia vita privata>>.
Hai
sempre detto di esserti fatto da solo, di
non aver avuto maestri nella tua formazione
artistica. Nel concerto d’addio alla Scala
nel ‘93 però hai fatto un pubblico
ringraziamento tua moglie, affermando che
senza di lei non saresti diventato Bergonzi.
Ecco,
devo ammettere che l’unica maestra che ho
avuto nella carriera artistica è stata
proprio mia moglie Adele. Ha un orecchio
formidabile. Non le sfugge niente. Ed è di
una severità inaudita. Non mi ha mai
perdonato niente. Facevo delle recite
magnifiche, magari con una sola nota presa
male o un po’ sporca, e lei arrivava nel
camerino: “Un disastro, hai cantato male,
quella nota non dovevi farla in quel modo”.
Mi sentivo morire, la cacciavo via, ma
dentro di me le davo ragione e mi sforzavo
per rimediare. Davanti a me non mi ha mai
lodato. Ma, quando non c’ero, mi difendeva
con i denti e diceva a tutti che ero il
migliore. Io, da parte mia, non mi sono mai
rassegnato ai suoi tremendi rimproveri, ma
so che, senza di quelli, non sarei arrivato
dove sono arrivato. Siamo veramente una
coppia formidabile, nell’arte e nella
vita>>.
Didascalie foto:
Foto 1 - Carlo Bergonzi seduto accanto al pianoforte nel suo appartamento
milanese. Nato 86 anni fa a Vidalenzo di Polesine Parmense, un paesino a due
chilometri da Busseto, patria di Giuseppe Verdi, Bergonzi è sempre vissuto a
Busseto, ma da un po’ di tempo trascorre i mesi invernali nel suo appartamento
di Milano. <<Ho qualche problema di salute>>, dice <<e qui nel capoluogo
lombardo ci sono medici di grande valore>>.
Foto 2 – Carlo Bergonzi con la moglie Adele. <<Sono figlio di un casaro e nel
campo della musica sono un autodidatta>>, racconta. <<L’unica maestra che ho
avuto è stata proprio mia moglie. Anche lei non ha studiato musica, ma ha un
orecchio formidabile. Non le sfugge niente. Ed è di una severità inaudita. Ma è
grazie a quella sua severità, unita a preziosi consigli se, nella carriera
artistica, sono arrivato dove sono arrivato>>,
Foto 3 – Carlo Bergonzi, al pianoforte. Dotato di una voce bellissima e di una
tecnica eccezionale, ha tenuto concerti fino agli ottant’anni. Ma la voce è
ancora intatta e spesso il maestro ama trascorrere ore al piano accompagnandosi
nelle celebri arie verdiane con le quali ha incantato il mondo.
Foto 4 – Carlo Bergonzi nello studio del suo appartamento milanese. Sulla
parete, alla sua destra, i ricordi di Busseto: in alto, una foto di Giuseppe
Verdi e, sotto, un quadro che raffigura la casa natale del grande compositore, a
Roncole, frazione di Busseto.
Foto 5 – Bergonzi indica l’impugnatura del bastone che usa per camminare e che è
costituita da una testa in argento di Giuseppe Verdi. <<Ho sempre amato
svisceratamente Verdi, fin da bambino>>, dice. <<Quando sentivo mio padre e gli
altri contadini cantare le romanze dalle opere di Verdi, restavo incantato ad
ascoltare. Le imparavo subito e continuavo a cantarle anch’io con passione>>.
Foto 6 – Carlo Bergonzi e la moglie Adele mostrano la pergamena arrivata dal
Vaticano con la benedizione di Papa Benedetto XVI per il loro sessantesimo
anniversario di matrimonio. <<La carriera mi ha dato successi e trionfi, ma le
gioie più belle le ho avute dalla famiglia>>, dice il tenore. << Prima di tutto
da mia moglie, Adele, che è sempre stata accanto a me, mi ha seguito
dappertutto, aiutandomi a sopportare i grandi sacrifici che questo mestiere
impone. Poi i figli, che sono cresciuti bene, e adesso due nipoti fantastici:
Marta e Carlo>>.
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