Mercoledì
15 giugno, al Ridotto dei Palchi “Arturo Toscanini” del
Teatro alla Scala a Milano, ci sarà la presentazione del
libro “Renato Bruson. Il volto, il gesto, il passo”. Un
volume, edito da Grafiche Step di Parma, dedicato ai
cinquant’anni di carriera del grande baritono italiano.
L’aggettivo “grande”, pur suggerendo significati
certamente straordinari, non “rispecchia” appieno l’uomo
e l’artista Renato Bruson. Uomo e artista che sono un
tutt’uno, indivisibili, con una personalità scolpita,
inconfondibile, che lo ha già inserito di diritto nella
leggenda. Il libro, prevalentemente
fotografico, delinea soprattutto l’itinerario della
carriera di Bruson. E’ stato curato con grande amore da
Tita Tegano, moglie dell’artista, che, con la competenza
che viene dalla sua professione di pittrice e
scenografa, ha dato al tutto eleganza e raffinatezza. Il
libro offre agli appassionati e agli ammiratori un
quadro ampio delle immagini di questo artista nelle
varie “incarnazioni” dei personaggi lirici da lui
interpretati. Manca, in un certo senso, ( ma questo non
era nel progetto del libro), un approccio “live” con
l’”uomo” Bruson, con la sua “quotidianità”, con i
“passi” compiuti nei sentieri difficili della vita
reale, soprattutto quelli degli inizi di carriera, che
stanno a fondamento delle vette artistiche poi
raggiunte. Mancanza che, nel caso di Bruson, potrebbe
essere dipesa da una precisa decisione dell’artista che
rifugge dal parlare di se.
Questo sua riluttanza mi è ben nota. Conosco Bruson da
molti anni. L’ho intervistato diverse volte, e sempre
con fatica. Le sue erano risposte brevi, asciutte e,
quando si trattava di raccontare di sé, diventava
telegrafico.
E’ un personaggio ostico. <<Non sono in pace con me stesso>>,
si
giustificava. <<E non riesco a nasconderlo. Per questo non sono una persona
amabile>>.
E’ stato spesso definito “burbero”, “taciturno”, “introverso”, “dal carattere
collerico”. Ma sono definizioni superficiali che non corrispondono al vero. E’
piuttosto un inquieto perfezionista, nell’arte come nella vita, mai contento di
se stesso e cocciuto nel voler raggiungere le mete che si prefigge. Questo stato
d’animo, permanente in lui, quasi congenito, lo tiene in una continua tensione
interiore e lo mette in conflitto con l’andazzo remissivo del vivere e del fare,
tipico della nostra società. Bruson non accetta questo andazzo. Non lo sopporta
negli altri. Lo odia e lo detesta nel mondo dell’arte.
<<Che cosa pensi di fare quando non canterai più?>>, gli ho chiesto un
giorno intendendo sapere se avrebbe scelto l’insegnamento o se pensava invece di
ritirarsi definitivamente dalla vita artistica.
Mi
ha guardato con occhi corrucciati ed ha risposto: <<Penso che farò probabilmente
il guerrigliero. Imbraccerò un mitra e andrò a fare piazza pulita di tante
schifezze, ingiustizie e sopraffazioni>>. Ha poi sorriso, trasformando il ghigno
indignato del viso in un’espressione dolce e remissiva. Quella che viene dal
profondo del suo animo e che rivela il vero Renato Bruson, ma che egli tiene da
sempre gelosamente nascosta.
<<Nessuno lo conosce a fondo>>, mi disse sua moglie, Tita Tegano. <<Neppure io
lo conosco bene anche se gli sto accanto da una vita. E’ uno che non si rivela
mai completamente. Credo non voglia farlo, o forse non ci riesce>>.
Uomo di complessa interpretazione, quindi, mentre, come artista, è assolutamente
solare. Tutti i critici, anche i suoi nemici, sono concordi nel ritenere che sia
un grandissimo cantante lirico. Paragonabile solo agli interpreti leggendari del
passato, quelli che hanno fatto la storia del melodramma.
Emerge per la qualità della voce: pastosa, morbida, di colore e compattezza
perfettamente omogenei per tutta l’intera gamma; per il carattere
dell’emissione: controllata, dosata, con scelte espressive mai banali; per la
chiarezza e nobiltà del fraseggio, che raggiunge i livelli massimi della parola
cantata; e infine per la raffinatezza, l’eleganza, la fierezza
dell’interpretazione, che pone Bruson nella ristretta rosa dei grandi
cantanti-attori. E tutto questo non per frutto del caso, ma ottenuto con studio
approfondito, con l’utilizzo intelligente dei suoi eccezionali doni naturali,
potenziati da una tecnica esemplare tenacemente affinata e consolidata nel corso
degli anni.
Nato a Granzè, in provincia di Padova, nel 1934, Renato Bruson
è
figlio di povera gente. Perse la madre ancora bambino e ne soffrì molto. Si è
costruito un avvenire da solo. Ma non spinto dalla smania di emergere, di
affermarsi di fronte agli altri, come succede quasi sempre. Ma, caso quasi
unico, per arricchire se stesso, per placare quell’irrefrenabile desiderio
interiore di perfezione, di bellezza, di arte, che lo tormenta.
Non ha mai perseguito il successo ad ogni costo: per questo la sua carriera è
stata lenta e faticosa. Non si è mai ritenuto un “arrivato”: per questo la sua
arte non palesa stanchezze. Non ha mai tradito la musica: per questo ha litigato
molto e si è fatto la fama di uomo difficile. Ma ha servito il Teatro lirico
come pochi.
Bruson non ama le interviste. Ma se è in vena di conversare e sente intorno a sé
una atmosfera di amicizia e di fiducia, si abbandona a confidenze preziose. La
sue risposte non sono mai ovvie. O tace o dice cose che vengono dal di dentro,
dal suo riflettere e pensare, risposte quindi importanti.
Un giorno sono andato a trovarlo a Salsomaggiore, dove stava facendo delle cure
termali. Il mensile giapponese “Ongaku No Tomo”, prestigiosa rivista che si
interessa solamente di musica sinfonica e lirica, con la quale ho collaborato
per dieci anni, mi aveva chiesto di intervistarlo. Il sapere, forse, che
l’intervista sarebbe uscita su una rivista straniera, in un Paese tanto lontano,
o forse anche per il calore dell’amicizia che mi ha sempre dimostrato, in
quell’occasione Renato Bruson è stato loquace. Seduti all’ombra dei grandi
alberi del giardino dell’Hotel Milano, Renato, si è lasciato andare ai ricordi,
regalandomi una intervista ricca di fatti, dettagli, impressioni, giudizi.
Intervista che è un vero documento storico per quanto riguarda questo artista, e
che in Giappone, Paese dove Bruson gode di una ammirazione sconfinata, è stata
pubblicata su otto pagine. Mi fa perciò piacere riproporla, almeno in parte, in
questa pagine che so essere lette da molti appassionati di lirica e ammiratori
di Bruson.
Caro
Renato, se dovessi ricominciare la tua vita da capo, rifaresti questa
professione?
<<E come potrei non farla? E’ una professione che mi ha dato grandissime
soddisfazioni. Chiaramente ho dovuto lottare, soffrire, e continuo a farlo
tuttora. Ma d’altra parte, chi è che non lotta nella vita per ottenere quello
che vuole? E poi devo dire che mi piace lottare>>.
Quando hai cominciato a sognare di diventare un famoso cantante lirico?
<<Per la verità io non ho mai sognato di fare il cantante lirico. E’ stato per
caso che ho iniziato a studiare canto. Ero disoccupato e ogni tanto mi
assumevano nei cantieri come manovale. Eravamo negli anni dell’immediato
dopoguerra. A quel tempo c’erano poche strade asfaltate, erano quasi tutte
sterrate. E il mio compito era proprio quello di riempire di sabbia le buche che
si creavano sulle strade. Ricordo che la paga era di cinquecento lire al giorno.
Quindi, a tutto potevo pensare tranne che a diventare un cantante>>.
Quando hai scoperto di amare la lirica?
<<Tardi. Fino verso a 15 anni non sapevo neppure che cosa fosse, quindi non mi
piaceva affatto. In casa non avevamo la radio e io, appassionato di sport e
soprattutto di ciclismo, andavo dagli amici che l’avevano solo per ascoltare gli
arrivi delle tappe del Giro ciclistico d’Italia” e per sentire le canzonette del
Festival di San Remo. Le conoscevo tutte. Ma non sapevo riconoscere nessuna aria
di Verdi. Era un genere che non mi piaceva.
<<Nel 1950 arrivò nel mio paese un parroco nuovo, don Sergio, ed era
appassionato di lirica. Fu lui a farmi scoprire l’opera. Aveva una grande
collezione di spartiti e un giorno mi disse di andare da lui per ascoltare la
lirica alla radio. Era il 1951, l’anno del Cinquantesimo anniversario della
morte di Verdi. Quella sera trasmettevano il Nabucco. Ascoltai l’opera,
seguendola sullo spartito e mi appassionai. Continuai ad ascoltare le opere alla
radio. L’anno dopo, quel prete mi portò per la prima volta all’Arena di Verona.
Ricordo che viaggiammo sulla sua moto, percorrendo tutte stradine sterrate
secondarie da Granzè a Verona, un centinaio di chilometri circa. Quando
arrivammo, la sua tonaca non era più nera ma quasi bianca dalla polvere. Vedemmo
la Gioconda, diretta dal maestro Votto, con Maria Callas. Da quel momento la
lirica mi entrò nel cuore>>.
E hai cominciato a sognare la grande carriera.
<<Non diciamo fesserie. Il canto mi è sempre piaciuto. Da bambino cantavo in
chiesa, e qualche volta, da voce bianca, avevo fatto anche il solista. Poi, con
l’età, la voce era cambiata. Avevo continuato a far parte del coro in chiesa.
Ero diventato tenore, poi basso. I miei amici mi dicevano che avevo una bella
voce e che dovevo farla sentire a qualcuno che se ne intendeva. Dopo quella
“Gioconda” in Arena ho cominciato a prendere in considerazione la possibilità. A
Padova c’erano delle audizioni per il teatro e gli amici mi convinsero a
partecipare. Mio cugino mi prestò la giacca, un paio di pantaloni e anche le
duecento lire necessarie per l’iscrizione.
<<L’audizione
la tenne il maestro Pedrollo, e devo dire che andò bene. Mi fecero chiamare e mi
chiesero che intenzioni avevo, se volevo cioè studiare canto. Dissi con
franchezza che avevo partecipato a quella audizione solo per curiosità e che non
avevo i mezzi economici per studiare.
<<Tutto sembrò finire lì. Passarono tre mesi e, poco prima di Natale, la
commissione del teatro mi fece chiamare. Avevano deciso di assegnarmi una specie
di borsa di studio perché potessi studiare al Conservatorio di Padova. . Mi
avrebbero pagato il viaggio da Granzè a Padova, le tasse e anche il vitto per
quei giorni in cui dovevo restare tutto il giorno in Conservatorio. Mi lasciai
convincere e cominciai. Ma fin dall’inizio non miravo a nulla. Per natura io
sono un pessimista e a quel tempo lo ero molto di più. La vita non mi aveva dato
altro che difficoltà e avevo sempre dovuto lottare coi denti per qualsiasi cosa.
Era ovvio quindi che il mio atteggiamento fosse guardingo e sospettoso.
<<Gli insegnanti parevano davvero convinti che io potessi fare qualcosa di buono
nel mondo della lirica ma io non ci credevo. Mi mettevo a litigare spesso con
loro perché ero convinto che, lodandomi, mi prendessero in giro. Non avevo la
minima fiducia nelle mie possibilità. A casa poi, non avevo alcun appoggio.
Anzi, mi erano tutti contro. Il periodo era quello del dopoguerra, la mentalità
del paese era ristretta, la mia famiglia era povera. Io, con il mio studio del
canto, passavo per quello che non ha voglia di fare nulla. I miei parenti
dicevano che non avevo voglia di lavorare e di farmi una posizione ed erano
scandalizzati che mio padre continuasse a lasciarmi andare a Padova a studiare.
Ad un certo momento anche mio padre mi si mise contro e per poter continuare gli
studi, dovetti lasciare il paese, andare in esilio. In pratica fino a quando non
arrivò il primo grande successo, nel 1967 a Parma, non pensai mai di poter
mantenermi facendo il cantante>>.
Però
già nel 1961 avevi vinto un importante concorso, quello di Spoleto.
<<Sì. E avevo debuttato con successo in teatro. Ma poi seguirono altri anni di
tremende difficoltà che non facevano sperare niente di buono>>.
Quando ti sei diplomato al Conservatorio di Padova?
Non mi sono mai diplomato. All’ultimo anno me ne sono andato. Ero stato
rimandato in letteratura poetica e drammatica e così quell’anno dovetti ripetere
il corso. L’insegnate era la stessa dell’anno prima. Lei non usava il libro di
testo ma dettava quello che avremmo dovuto studiare. Mi accorsi che dettava le
stesse, precise cose dell’anno precedente. Così io non scrivevo. “Bruson!”, mi
disse “Perché lei non scrive?”. “Perché sono le stesse cose che mi ha fatto
scrivere l’anno scorso”, risposi. “Ma come si permette?”, disse lei infuriata.
“Se vuole possiamo confrontarle”, aggiunsi. E allora lei mi sospese. E io me
andai del tutto. Avevo vinto il Festival di Spoleto, e lo avevo vinto alla
grande, pensavo di poter cominciare a guadagnare qualche cosa. Ma era
un’illusione>>,
Come
mai?
<<Non lo so. In quel periodo ero bersagliato dalla sfortuna. Nel 1962 mi
stabilii a Roma, perché nella capitale potevano nascere le occasioni di lavoro.
Potei studiare con vari maestri del Teatro dell’Opera e sostenere delle piccole
parti in teatro, ma niente di più.
<<L’attesa, durissima, continuò per cinque anni. Finalmente nel 1967 fui
chiamato dal Regio di Parma. L’opera era la Forza del destino, con Franco
Corelli. C’era moltissima attesa e fu per me un battesimo straordinario, che
segnò il vero inizio della mia carriera. In sala c’era Roberto Bauer, incaricato
dal Metropolitan di cercare voci nuove. Venne a congratularsi e mi fissò un
appuntamento con il sovrintendente del Metropolitan, Rudolf Bing. L’anno
successivo andai a New York e debuttai al Met. Bing voleva che restassi la,
pagato mensilmente. Io rifiutai perché non mi piaceva l’America. Lui si risentì
e finchè rimase direttore io non ho più messo piede al Met>>.
Quali le altre tappe importanti dell’inizio della tua carriera?
<< Dopo il debutto al Metropolitan di New York nel 1968, considero una tappa
importante il debutto al San Carlo di Napoli con il Lohengrin, in italiano, nel
1969. Opera difficile, ma grande esperienza per me. Poi il debutto alla Scala di
Milano nel 1972, con Linda di Chamounix e il debutto all’Arena di Verona nel
1975. Fu il commendator Cappelli, sovrintendente ad insistere perché andassi a
cantare in Arena. Erano tre anni che mi faceva proposte ma io avevo sempre detto
di no perché le opere che mi voleva far cantare non erano del mio repertorio.
Alla fine, il quarto anno, mi offrì Forza del Destino, l’opera con la quale
avevo debuttato a Parma e che mi aveva sempre portato fortuna. Solo allora
accettai e fu un successo. Da allora la mia carriera non ebbe tregua>>.
Nella carriera di ogni artista ci sono serate magiche che, per successo o per
emozioni, non si possono dimenticare mai. Ne puoi citare qualcuna?
<<Parma, sicuramente, con il mio vero debutto nel 1967. Il debutto non si può
dimenticare. Parma era allora considerata una piazza davvero molto difficile. A
renderla
tale
era il pubblico, esigente e competente. In quella città o si ottenevano grandi
successi o fischi. Se andava bene, voleva dire che si aveva proprio cantato come
si deve. Ricordo che tra i cantanti la tensioni si respirava addirittura
settimane prima. Parma metteva davvero paura. Corelli era pallido come un
cadavere. Immagina come mi sentivo io. Ma andò benissimo e il ricordo di quel
successo è inciso a fuoco nel mio animo.
<<Fra le tante altre serate rimaste indelebili nei miei pensieri, .quella che
forse mi ha dato la più viva emozione artistica la vissi a Vienna nel 1984.
L’opera era il Simon Boccanegra, una produzione della Scala con la regia di
Giorgio Strehler. Come ho già detto, il Simon Boccanegra è un’opera che io
adoro. Il finale mi ha sempre commosso, al punto che fin dalle prime volte in
cui ho interpretato quest’opera, ho dovuto imparare a controllarmi, per non
incrinare la voce a causa della commozione. A Vienna, quella sera, fu
un’apoteosi. Nel 1984 avevo già fatto circa cento recite del Simon Boccanegra.
Lo avevo assimilato bene. Era entrato dentro di me al punto che quando lo
interpretavo riuscivo veramente a immedesimarmi. Per cui, in quel teatro, a
Vienna, con Claudio Abbado sul podio, ho dato veramente il meglio di me stesso.
Alla fine dell’opera, si chiuse il sipario e fu silenzio. Il pubblico era così
preso, così coinvolto, che non applaudì. Niente. Silenzio assoluto. Furono
attimi da infarto, non per la paura che l’opera non fosse piaciuta, ma perché
sentivi che perfino l’aria era elettrizzata dall’emozione che coinvolgeva tutti.
Naturalmente dopo alcuni attimi si è scatenato il finimondo di entusiasmo con
battimano interminabili. Ma furono proprio quegli attimi di silenzio a decretare
il successo della recita. In seguito ho ricevuto anche delle lettere. Persone,
presenti a Vienna quella sera, mi scrivevano dicendo che, dopo aver assistito a
quella recita, la loro vita era cambiata. Questo per me è stato il massimo di
soddisfazione che un artista possa avere dal suo lavoro>>.
Serate storte?
<<Non mancano mai nel corso della carriera e per le ragioni più disparate. Però
devo dire che sono stato fortunato perché non ho ricordi di recite andate
davvero storte, in modo disastroso. Qualcuna burrascosa l’ho avuta. Ricordo un
Trovatore a Parma. Era il 1969, e cantavo con Richard Tucker e Katia
Ricciarelli. Fin dalle prime note si capiva che tra il pubblico c’era aria di
contestazione. Si voleva a tutti i costi, forse per ragioni politiche, rovinare
la serata. L’opera di per sé andava avanti abbastanza bene. Ma al termine di
ogni aria oltre agli applausi si sentivano zitti e qualche fischio.
Ingiustificati, nel modo più assoluto. E ad un certo momento mi arrabbiai. Non
potevo accettare quelle critiche stupide e uscii di scena. Tutti si misero a
cercarmi per convincermi a tornare sul palco, ma io non demordevo. Furono
costretti a spingermi. E mentre mi spingevano e io mi ritraevo deciso a non
salire sul palco, scattò il flash di un fotografo. “Chi è stato? Chi ha fatto la
foto?” urlai furioso. E vidi un fotografo che scappava. Io ero vestito con il
costume e portavo la spada. Brandii l’arma e lanciando fendenti in aria
cominciai a rincorrere il fotografo urlando come un forsennato. I colleghi, il
personale mi rincorreva temendo che facessi un macello. Una scena veramente
comica. Ma ero così infuriato che se fossi riuscito a prendere quel fotografo
gli avrei veramente fatto del male. Penso che quella sia stata l’unica serata in
cui le cose non sono andate come dovevano. E la colpa fu mia. Se io avessi
gestito meglio la vicenda, tenendo i nervi a posto, non sarebbe successo niente.
Non avrei dovuto reagire. Ma ero giovane e avevo forse un po’ la testa calda
anch’io>>.
Canti
da quasi mezzo secolo: è un mestiere duro?
<<Lo è. E richiede molti sacrifici. Soprattutto molto studio. Bisogna studiare
continuamente e seriamente. Stare attenti alle opere che si sentono, e studiare.
Con il termine sacrifici intendo anche quello di saper rinunciare ai facili
guadagni. Si deve sempre stare attenti a non accettare proposte allettanti
perchè possono fare più male che bene. La carriera si fa con i no! Io ricordo
quando Muti mi chiamò a Firenze, per fare “Guglielmo Tell”. Gli dissi: “Maestro,
io la ringrazio ma non me la sento ancora di fare questa opera.” E lui se la
legò al dito e quando rifece quell’opera alla Scala, non mi chiamò. Ma non ha
importanza. Dopo una lunga carriera, canto ancora regolarmente. Questo è ciò che
conta. Ho conosciuto giovani con belle voci, grandi speranze, ma che poi si sono
bruciati perché non hanno saputo amministrarsi con prudenza>>.
Tutti i critici hanno sempre messo in evidenza, nella loro recensioni, che tu
sei un cantante-attore. Che i tuoi successi non sono solo legati alla tua voce,
ma anche al tuo modo di recitare. Massimo Mila, dopo il tuo “Otello” del 1987
alla Scala, scrisse: “Bruson ha dominato dentro la regola aurea dello stile,
sentito dall’artista come una seconda natura”. Giudizio strepitoso, tenendo
conto che viene dal “principe” dei critici di musica italiani. A proposito, come
sono stati i tuoi rapporti con la critica?
<<Devo dire che sono sempre stati abbastanza buoni. Ho sempre accettato le
critiche costruttive ma mi sono sempre scontrato con la critica distruttiva,
fatta solo per offendere e denigrare. E poi non ho mai sopportato i critici che
parlano bene di te e poi si aspettano dei ringraziamenti. Io non ho mai detto
grazie a nessun critico. Ma come? Grazie per che cosa? Io sul palcoscenico ho
fatto il mio dovere, il mio lavoro. E il critico deve fare il suo, di lavoro,
scrivendo bene o male.
<<Riguardo al giudizio di Mila che hai citato, mi ha fatto molto felice.
Soprattutto perché fa riferimento all’Otello. Il personaggio di Iago è per me
come una seconda pelle e sulle scena lo vivo come se fossi io personalmente. Amo
molto quel ruolo e se ne parlano bene mi fa piacere perché significa che hanno
capito la dedizione con cui lo interpreto>>.
I critici hanno anche sempre esaltato la tua regalità, la tua signorilità, la
nobiltà e l’eleganza del gesto, degli atteggiamenti, da autentico attore.
<<Devo ringraziare per questo i miei maestri. Loro mi hanno insegnato come
cantare ma anche come muovermi, come atteggiarsi. Erano maestri che amavano il
teatro e soprattutto amavano i giovani. Persone straordinarie che ora non ci
sono più. E questo è un grandissimo peccato, perché i giovani cantanti di oggi
non possono più godere dei loro consigli. Quelle persone mi spiegavano non solo
come si doveva cantare ma anche come dovevo muovermi, parlare, gesticolare. Io
ero giovane e assimilavo molto.
<<Durante la mia carriera poi, ho sempre avuto l’umiltà di andare da quelli che
erano già arrivati in cima a chiedere consigli. E da loro ho sempre imparato
moltissimo. Per esempio, ho ricevuto bellissime lezioni da Tito Gobbi e da Boris
Christoff. Con l’aiuto dei miei maestri e dei grandi interpreti più anziani di
me ho sempre cercato di approfondire i miei personaggi. Quando si trattava di
personaggi storici, ricorrevo anche all’aiuto di libri per conoscere tutto della
loro vita reale, della loro attività, delle loro imprese. I ruoli di personaggi
storici sono quelli che ho preferito in assoluto e infatti, parti un po’ banali,
come quelle del “Ballo in maschera” o del “Trovatore” con il tempo non le ho più
volute fare. Non mi davano la possibilità di leggere dentro i personaggi>>.
Quando affronti un personaggio nuovo e interessante, come
procedi
nella preparazione?
<<Prima di tutto leggo bene il testo dell’opera. Quindi, cerco di documentarmi
il più possibile su quel personaggio. Se è realmente esistito non è difficile,
si cerca nei libri di storia. Se invece è un personaggio di fantasia, allora mi
informo sul suo autore, su quello che ha voluto dire, sul tempo storico in cui
lo ha ambientato eccetera. Solo dopo questa preparazione, comincio a prendere in
considerazione la musica.
<<Io non ho mai studiato le opere nuove a corpo morto, gettandomi sullo spartito
per settimane di fila. Ho sempre usato una mia tecnica graduale e per nulla
stressante. Studio l’opera per una settimana e poi la metto da parte. La
riprendo dopo dieci giorni e la studio per un’altra settimana e la rimetto
ancora da parte. Quando la riprendo dopo un’altra lunga pausa, la so a memoria.
Nei periodi di riposo, il cervello continua a lavorare, a vagliare, a soppesare.
Ciò che ho studiato sedimenta, matura, si assesta, prende forma, evidenzia
lacune e difetti. Imparando la parte in questo modo non solo non la si dimentica
mai più, ma prende forma dentro di te, diventando parte della tua personalità,
quasi del tuo sangue. E quando sali sul palcoscenico ti senti immedesimato in
essa.
<<Purtroppo, oggi i giovani non hanno una tecnica di studio. Non ci sono
insegnanti che gliela suggeriscano. Sai cosa fanno? Studiano le opere sui
dischi. E’ la cosa più sbagliata del mondo. Anche se non vuoi, in questo modo
tendi per forza ad imitare e rovini te stesso>>.
Cosa pensi di certi registi moderni che vogliono stravolgere le indicazioni
del compositore?
<<La maggior parte di essi, per non dire quasi tutti, si preoccupano solo del
quadretto che stanno allestendo. Il resto, per loro, non conta. Peccato che il
resto sia l’opera lirica stessa.
<<Penso che, oggi, molti registi cerchino solo di sfogare nelle scenografie i
loro istinti repressi. Cambiano tutto, anche lo stile stesso dell’opera. Non si
interessano all’interpretazione dei personaggi. Così manipolano i giovani
cantanti, i quali si trovano sul palco, in un contesto moderno, quindi strano,
sentendosi a disagio e non sapendo per niente cosa devono fare. Questo perché il
regista non dice loro nulla. E’ chiaro che poi l’opera va male. Ma questo non è
un guaio per loro. Oggi l’importante è far parlare, e i registi allora cercano
di fare cose sempre più strane. Proprio per far parlare. L’assurdo è che poi
pretendono anche di spiegarti l’iter psicologico che li ha portati a quella
scelta. Per esempio, al Teatro Sperimentale di Spoleto hanno allestito, anni fa,
una Tosca dove, nella scena del “Te Deum”, al posto dei chierichetti c’erano
delle ragazze a seno nudo. Ma ti pare possibile?
<<Io più di una volta ho litigato con registi di questo tipo e sono stato
costretto ad andarmene. Mi ricordo di una recita di Otello a Macerata. Invece
del costume di Iago, il regista voleva che indossassi un vestito bianco, tenessi
un gatto in mano e portassi il monocolo. Siccome Iago è un cattivo, il regista
voleva che fossi vestito come il cattivo dei film di 007. “Io voglio fare Iago
come lo avevano in mente Verdi e Boito”, ho protestato. “O il costume è come
dico io o vi trovate un altro interprete”. Alla fine io ho indossato il costume
classico. Ma ero l’unico in quell’allestimento>>.
Quante opere hai in repertorio?
<<Una settantina. Ma mi riferisco alle opere interpretate in teatro, sulla
scena, con i costumi. Perché poi ce ne sono tante altre che ho fatto solo in
forma di concerto oppure che ho cantato per un’incisione discografica. Se
teniamo conto anche di queste, il repertorio sale a circa 110 opere>>
I tuoi cavalli di battaglia?
<<In testa c’è Il Macbeth di Verdi. Poi il Simon Boccanegra, Rigoletto,
Traviata. Ho fatto tante recite anche di Don Carlos. Insomma, come vedi, opere
di Verdi>>.
Quali i personaggi che più ti piacciono?
<<Falstaff , Iago e Simon Boccanegra. Quando stavo per debuttare in questo
ruolo, nel 1976, ebbi la fortuna di stare una ventina di giorni con Tito Gobbi,
che fu un mitico Simone. Ogni giorno trascorrevo ore a parlare con lui di
quest’opera. Lui parlava, raccontava, da uomo colto qual era e ricordo che si
commuoveva e piangeva. Tanto era l’amore che provava per quel personaggio. Gobbi
era un artista sommo. E un grande signore. Non l’ho mai visto rabbuiato, ma
sempre sereno>>.
C’è un’opera che hai sempre desiderato interpretare e non hai mai potuto
farlo?
<<Si, ce ne sono diverse. Mi sarebbe piaciuto fare il Boris, ma ora c’è la moda
di fare tutto in originale e io non ho voglia di mettermi ad imparare il russo.
Anche il Dvozeck mi piacerebbe, ma non conosco il tedesco. In fin dei conti sono
contento di quelle che ho fatto. Non ho rimpianti>>.
Renzo Allegri
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