Il Catechismo della Chiesa Cattolica dice che nell’Eucaristia
Gesù è presente “in anima, corpo e divinità”. E si tratta di una presenza “vera,
reale e sostanziale”.
Il significato di queste parole sconcerta. Indica una realtà immensa.
Impossibile, per la ragione. Meravigliosa e commovente, per la Fede. Ragionarci
intorno per cercare di capire, non serve. Ma qualche piccola riflessione, per
chi crede, potrebbe aiutare ad avere un’idea approssimativa di come stanno le
cose.
Dio, spiega il catechismo, è “immenso”, ed è presente “in cielo, in terra e in
ogni luogo”. Gesù, invece, con il suo corpo, la sua anima, la sua divinità,
uomo-Dio risorto dai morti e salito al cielo, in questo nostro mondo è presente
solo nell’Eucaristia, cioè nel pane e nel vino che sono stati consacrati secondo
un rito da Lui stabilito. Chi si sofferma a guardare il tabernacolo dove si
trova l’Eucaristia, può dire a se stesso che il suo sguardo, con certezza, punta
dritto su Gesù. In quel tabernacolo, in quel piccolo spazio ben delimitato, vi è
Gesù vivo, con il suo corpo vero e glorioso. Se sposta lo sguardo, anche di
poco, la sua vista non si posa più sul corpo di Cristo, non si scontra più, per
così dire, con i suoi occhi, ma si posa su i realtà fisiche ben visibili. E’ un
ragionamento banale, per certi versi assurdo, ma rispecchia una realtà concreta,
immensa, spaventosa e insieme meravigliosa. Da quasi duemila anni, Gesù sta
chiuso nei tabernacoli. Non importa se le chiese sono vuote e a volte chiuse.
Lui è là. In continuazione, 24 ore su 24. Non se ne va per mancanza di pubblico.
Non riduce l’orario della sua presenza perché ci sono pochi interlocutori.
Diceva Santa Teresa di Lisieux <<Se la gente conoscesse il valore
dell'Eucaristia, l'accesso alle chiese dovrebbe essere regolato dalla forza
pubblica.>>. Invece, la gente conosce poco questo mistero e le chiese sono
vuote.
Nella mia lunga carriera di giornalista in qualità di inviato speciale ho
viaggiato moltissimo. Ho così potuto visitare varie chiese, anche nei luoghi più
remoti. Spesso erano totalmente deserte. Magari alla domenica, in certe nazioni
europee, si animavano un poco. Ma durante la settimana era raro incontrare
persone.
Da anni frequento l’isola di Tenerife. Mi riposo e scrivo. Vado a Playa de las
Americas, zona Sant’Eugenio, lungo la costa oceanica. Vicino all’albergo dove
alloggio, vi è una chiesetta. Fino a qualche anno fa era l’unica chiesa della
zona. Poi, con il boom turistico e l’enorme crescita delle abitazioni, ne è
stata costruita una seconda, molto più grande, nel centro della città. E così,
la chiesetta di Sant’Eugenio è passata in secondo ordine, ma serve ancora nelle
domeniche per la Messa dei cattolici e subito dopo per le finzioni religiose dei
protestanti.
E’ una chiesetta amata dalla gente del luogo e dai turisti. Anche per la sua
posizione, che si trova su una piccola altura, a cento metri dell’oceano, con
una vista panoramica mozzafiato.
Al mattino presto, quando l’aria è pungente, diversi turisti escono dai vari
alberghi per fare footing. E, correndo, passano anche accanto alla chiesetta.
Anch’io, a quell’ora, esco sempre per una passeggiata. E mi sono accorto che tra
i fanatici del footing ci sono persone credenti. E non pochi. Incuriosito e
sorpreso, ho voluto fare un piccolo controllo. Mi fermavo un po’ lontano per non
dare nell’occhio, e osservavo il comportamento dei passanti. Molti, senza
interrompere la corsa, giravano il volto verso la chiesetta, quasi a voler dare
un tacito saluto; qualcuno accennava a un segno di croce. Ma c’erano anche di
quelli che si fermavano e entravano per una breve sosta. La percentuale dei
“sensibili” alla presenza del luogo sacro, mi pareva sorprendentemente elevata,
tenendo conto che si trattava di turisti, persone giovani e anziane, uomini e
donne, provenienti da ogni parte del mondo.
Quest’anno, le cose erano cambiate. Fin dalla mia prima passeggiata, mi sono
accorto che la chiesetta era chiusa. Un cartello diceva che veniva aperta solo
la domenica per la Messa. Mi sono informato. Nella chiesetta continuava ad
esserci l’Eucaristia, ma, essendo venute a mancare le persone laiche, le solite
preziose vecchiette, che se ne prendevano cura, il parroco, impegnato nella
nuova sede, aveva deciso di tenere chiusa, durante la settimana, la chiesetta di
Sant’Eugenio. E così, Gesù, presente nell’Eucaristia, restava isolato anche da
quelle persone che abitualmente si fermavano a salutlarlo.
Ho constatato, però, che i fanatici del footing non hanno cambiato
atteggiamento. Quelli che salutavano con uno sguardo e un veloce segno di croce,
hanno continuato a farlo. Quelli che si fermavano ed entravano per una veloce
visita, ora restavano sulla porta e, dopo aver letto il cartello, se ne andavano
lentamente, con disappunto.
Durante quelle mie mattutine soste di controllo, ho notato la presenza costante
di un distinto signore assai anziano. Arrivava camminando lentamente, aiutandosi
con un bastone. Si fermava davanti alla porta della chiesetta. La mani
appoggiate sul bastone, gli occhi bassi, restava immobile per diversi minuti.
Poi si faceva il segno della croce e riprendeva la passeggiata. Una mattina mi
sono avvicinato. Finsi di leggere per la prima volta il cartello affisso e
borbottai: “Peccato che la chiesa sia chiusa”. Mi ha guardato e con un leggero
sorriso, mi ha detto: “Ma lui c’’è. Lui c’è sempre”.
Un giorno, aprile 1990, ero a Las Vegas per lavoro. Dovevo intervistare Lola
Falana, cantante e ballerina americana, che avevo conosciuto nel 1967, quando si
esibiva alla televisione italiana, a “Studio Uno”, con la coppia Luzzati-Mina,
ed era diventata popolarissima. A Las Vegas Lola Falana stava tenendo una serie
di spettacoli nel teatro di uno dei grandi alberghi di quella metropoli del
divertimento e del gioco. Accompagnato da un fotografo italiano che vive a Los
Angeles, arrivai a La Vegas in piena notte. Ma a Las Vegas sembrava pieno
giorno. Tutto aperto, tutto illuminato, tutto in funzione. Una città che non
dorme mai.
Avevamo appuntamento alle undici del mattino. Conoscevo bene quell’artista. Era
un idolo per il mondo dello spettacolo, ma io sapevo che era anche anche una
ragazza di fede. L’incontro, come sempre, fu cordialissimo. Abbiamo fatto
l’intervista, le foto, e poi lei volle portarmi in una chiesetta dove andava
spesso a pregare. Una chiesetta proprio piccola, invisibile tra i mastodontici
alberghi. Appartiene alle Suore Carmelitane, ma è aperta anche al pubblico.
Siamo entrati. La ballerina, con una devozione discreta ma sentita, si è
prostrata davanti al tabernacolo. Io ero rimasto vicino alla porta. Sentivo, in
sottofondo, il brusio frenetico delle città del gioco, ma avevo l’impressione
che si fermasse sulla porta . Dentro, silenzio e solitudine. Nessun segno di
presenza umana. Forse, nessun altro abitante di Las Vegas, visitava la
chiesetta. Lui, Gesù, quindi, era sempre solo. E’ vero che aveva la compagnia
delle dieci religiose carmelitane, sepolte nella clausura, ma di tutta la gente
di Las Vegas e degli innumerevoli turisti presenti nella città, in quella
chiesetta non c’era traccia. Lui era là, in quel piccolo tabernacolo, sulla cui
porticina erano dipinte due lettere dell’alfabeto, una P e un X, intrecciate,
che sono le due prime lettere della parola “Cristo” in greco. Guardavo la
ragazza raccolta in preghiera, pensavo alla città, alla gente, alle feste, a
quel vivere chiassoso, e al vuoto assoluto di persone nella chiesetta. Sembrava
che perfino i rumori e le voci si fermassero sulla porta.
Liliana Così è una ballerina classica famosissima. Certamente
la più grande ballerina italiana degli ultimi cinquant’anni. Etoile alla Scala,
étoile al Bolscioi di Mosca, anni di trionfi nei teatri più prestigiosi del
mondo, e poi fondatrice, con Marinel Stefanescu, della “Associazione Scuola di
Balletto Classico” a Reggio Emilia, ente unico nel suo genere che insieme
all’arte si prefigge di tramsettere alti valori spirituali. Si legge, infatti
nello Statuto di questa Scuola: <<Ci proponiamo di coltivare e di diffondere,
specie tra i giovani, il balletto, quale espressione di arte e di cultura,
strumento di elevazione e liberazione, oltre ogni confine sociale e nazionale,
momento dell’armonia e della bellezza che l’anima di ogni uomo ricerca”>>.
I media raramente parlano di Liliana Cosi. Probabilmente perché ha un grande
difetto: è cattolica, credente e praticante. Lo è da sempre. Una donna
innamorata di Gesù. Fa parte del Movimento dei Focolarini fondato da Chiara
Lubich. Fin da giovanissima ha legato la propria vita a quel movimento.
Dopo il diploma conseguito alla Scala nel 1958, venne subito assunta nel corpo
di ballo del prestigioso teatro con contratto a tempo indeterminato e nel 1963
inviata A Mosca per un corso di perfezionamento al Bolscioi. Nel 1965, debutta
al Palazzo dei Congressi del Cremlino come protagonista nel “Lago dei Cigni”,
ottenendo un trionfo e conquistando i dirigenti e il pubblico di quella nazione,
considerata la “patria del balletto classico”. Dopo quel successo clamoroso, è
diventata una beniamina del pubblico russo ed è stata richiamata molte volte per
spettacoli e per lunghe tournée.
Allora, sotto il rigido Regime Comunista, le ballerine straniere si esibi¬vano
in Unione Sovietica solo raramente e in occasioni di scambi culturali. Liliana
Cosi, invece, fu “adottata” dai russi, e fu scelta ad¬dirittura per inaugurare
la sta¬gione dei balletti al Bolscioi, un onore mai riservato a una danzatrice
straniera. Ha tenuto a Mosca e in giro per la città dell’Unione sovietica oltre
150 spettacoli.
Quando studiava a Mosca, la Cosi andava a Messa tutte le mattine, e andava nella
chiesa di San Luigi, presso l’Ambasciata francese, che era l’unica chiesa
cattolica aperta sotto il Regime comunista sovietico. Ma, nel 1968, quando venne
chiamata per la prima lunga tournèe in varie città dell’Unione Sovietica, si
rese conto che non avrebbe avuto la possibilità di partecipare alla Messa e fare
la Comunione. Le chiese dell’Unione Sovietica erano tutte chiuse, trasformate in
musei o un magazzini. E di fronte a questa prospettiva provava un forte disagio
interiore. Ma qualcuno le venne in aiuto.
E qui si inserisce una vicenda straordinaria, che Liliana Cosi mi ha raccontato
varie volte e che ha anche descritto nel suo libro autobiografico, “Etoile la
mia vita”, libro bellissimo, pubblicato dalla Editrice Città Nova. Per quella
tournée, Chiara Lubich le affidò una compagna focolarina, che si chiamava Vale.
Una grande amica di Liliana che l’aveva accompagnata altre volte a Mosca. Ma
che, per quella tournée, aveva ottenuto un permesso speciale di poter portare
con sé l’Eucaristia. Dentro una piccola teca, custodita nella borsetta, Vale
teneva le ostie consacrate e ogni mattina, lei e Liliana, nella loro stanza
d’albergo pregavano e poi facevano la comunione. In un periodo in cui in tutte
la Nazioni dell’Unione dell’impero comunista sovietico non esistevano chiese
aperte, Gesù, grazie a quelle due ragazze, ha “percorso” in lungo e in largo
quell’enorme territorio. Ha visitato città e nazioni, si è fermato nei teatri,
nei camerini dei teatri, negli alberghi, nei ristoranti, ha viaggiato sui taxi,
sui treni, sugli aerei. E’ andato perfino al Cremlino. Liliana Cosi era un mito
anche per le alte gerarchie sovietiche che, in varie occasioni, la vollero
protagonista di spettacoli all’interno del Cremlino. E, così, sia pure
clandestinamente, il Figlio di Dio ha messo piede anche in quella “cittadella”
medievale che era, allora, il centro dell’ateismo mondiale.
<<Ho un ricordo struggente di quella mia tournée in Russia>>, mi disse un giorno
Liliana Cosi. <<Per via di quella speciale presenza eucaristica, mi pareva di
vivere in Paradiso. Durante i viaggi in aereo, mettevo la mano nella borsetta e
mi sentivo ripiena di Dio. Questa situazione, purtroppo, non potè mai più
ripetersi, in seguito avrei viaggiato sempre da sola>>.
Nei suoi anni giovanili, Padre Pio impiegava circa quattro ore per celebrare la
Messa. Dopo la consacrazione, restava immobile, in contemplazione del mistero
che si era verificato. Ma non tutti allora ritenevano che Padre Pio fosse un
santo e i suoi superiori gli imposero di non superare i trenta minuti nella
celebrazione della Messa. .
Durante la giornata, Padre Pio trascorreva molte ore davanti al tabernacolo. Ai
suoi figli spirituali raccomandava di fare frequenti visite a Gesù Eucaristico,
lasciato spesso solo nei tabernacoli.
Nel periodo in cui il cardinale ungherese Joszef Mindszenty si trovava nelle
carceri di Budapest, condannato all’ergastolo, e cioè tra il 1948 e il 1956,
Padre Pio fu protagonista di incredibili episodi. Correva voce che, in quegli
anni, egli fosse andato, varie volte, in bilocazione, nelle carceri di Budapest
per incontrare e confortare il cardinale Mindzsenty. Non solo. Ma, poiché il
cardinale desiderava tanto poter celebrare la Messa, Padre Pio, sempre in
bilocazione, gli aveva portato il necessario per la Messa e lo aveva assistito
nella celebrazione. Fatti clamorosi e, per questo, assurdi, incredibili. Dei
viaggi in bilocazione di Padre Pio si è parlato e scritto molto. Ma lo si è
fatto sempre con una punta di scetticismo. Però, portare, in bilocazione, in un
carcere comunista di assoluta sicurezza, l’occorrente per celebrare la Messa,
sembrava proprio un racconto da leggenda.
Conoscevo molto bene Angelo Battisti, grande amico di Padre Pio e per molti anni
Amministratore della “Casa Sollievo della Sofferenza”, l’ospedale che Padre Pio
aveva fondato a San Giovanni Rotondo. Un giorno, chiesi a Battisti che cosa
pensasse di quelle voci sui viaggi del Padre in bilocazione dal cardinale
Minszenty in prigione a Budapest. Mi rispose che era tutto vero. Mi disse che
lui stesso ne aveva parlato direttamente con padre Pio, il quale aveva
confermato, raccontando di aver trovato il cardinale tutto pesto per le torture
subite. E aveva confermato anche di avergli portato l’occorrente per la
celebrazione della Messa.
Battisti mi raccontava quelle cose con grande semplicità. Io stavo zitto, ma non
riuscivo a crederci. Il mio viso certamente tradiva quel disagio interiore.
Battisti se ne accorse e, in seguito volle tornare sull’argomento, inviandomi
una relazione manoscritta di quella vicenda, confermando quanto già mi aveva
detto a voce e aggiungendo altri particolari stupefacenti. Per esempio, questo.
Sempre in quegli anni, a San Giovanni Rotondo era arrivata una lettera
indirizzata a Padre Pio e scritta da alcune suore cecoslovacche, che,
clandestinamente, vivevano nascoste su una montagna. In quella lettera, le suore
ringraziavano Padre Pio perché era stato da loro a celebrare la Messa. Ma, come
è noto e accertato, Padre Pio non si è mai allontanato da San Giovanni Rotondo,
quindi era andato da quelle suore in bilocazione. E di questi viaggi misteriosi,
per portare l’Eucaristica ai martiri del Comunismo ateo nei Paesi dell’Est,
sembra che Padre Pio, in quegli anni, ne abbia fatti parecchi.
Renzo Allegri |