Questo
interrogativo è certamente ritenuto inutile da molti. Ma non per chi ha delle
persone un’idea immortale, nel senso che crede “nella vita eterna” come insegna
il Cristianesimo. Giuseppe Verdi e Richard Wagner, durante la loro esistenza in
questo mondo, sono stati i due massimi rappresentanti del teatro in musica. Le
loro opere sono state le più amate dal pubblico e le più rappresentate. E questi
due grandi artisti sono tuttora due persone “viventi”. Viventi in un “altrove”
che “fisicamente” ci sfugge. E, attraverso i loro capolavori, continuano a
trasmettere i valori nei quali hanno creduto.
Capolavori wagneriani come “Tannhauser”, “Lohengrin”, “L’anello del Nibelungo”,
“Tristano e Isotta,”, “I maestri cantori di Norimberga”, “Parsifal”, eccetera; e
capolavori verdiani come “Nabucco”, “Trovatore”, “Traviata”, Rigoletto”, “Vespri
siciliani”, “Simon Boccanegra”, “Ballo in maschera”, “Don Carlos”, “Forza del
destino”, “Aida”, “Otello”, “Falstaff” eccetera, sono patrimonio della cultura
mondiale, sempre presenti nelle stagioni teatrali più importanti, scelti dalla
case discografiche per nuove incisioni, diffusi con ogni mezzo, e continuano a
suscitare emozioni, riflessioni, cioè a trasmettere quei valori nei quali,
durante il corso della loro esperienza terrena, i due autori hanno creduto.
E’, perciò, perfettamente logico interrogarsi e approfondire quei valori.
Soprattutto perché l’intera produzione artistica di Verdi e Wagner è pervasa da
tematiche che si richiamano ai valori spirituali cristiani. Magari non sempre
affrontati direttamente, ma tenuti come “sfondo costante” delle storie che hanno
musicato, nelle quali si rispecchia la vita dell’umanità nella sua visione
biblica, con le lotte tra il Bene e il Male e dove, alla fine, sempre primeggia
il Bene e l’apertura verso quei valori eterni, che “impregnano” la coscienza
dell’uomo. Forse in nessun altro compositore come in questi due è sempre
presente il destino ultimo della vita, e, attraverso le vicende dei vari
protagonisti, quello dell’umanità nel suo complesso.
E’, quindi, perfettamente lecito formulare anche domande che superano l’estetica
e la stessa arte perché riguardano la “realtà immutabile”. Wagner e Verdi erano
credenti? Quale idea avevano della vita, della vita oltre la vita, del
soprannaturale, di Dio?
E’ difficile dare una risposta. I due musicisti sono vissuti nell’Ottocento,
secolo nel quale quasi tutti gli artisti e gli intellettuali amavano mostrarsi,
in pubblico, seguaci della moda imperante, e cioè scettici e materialisti.
Wagner viene abitualmente descritto come un egocentrico, superbo, invidioso,
avido, antisemita, cultore della razza, precursore del nazismo, del comunismo.
Apparentemente, una persona molto lontana dalla tematiche religiose.
Verdi,
soprattutto in Italia, è stato usato come
emblema dell’anticlericalismo, ateo, avaro, avido,
misantropo. Giuseppina Strepponi, grande cantante e sua seconda moglie, in una
lettera del 1872 scriveva a un amico: <<Verdi è una perla d'onest'uomo, capisce
e sente ogni delicato ed elevato sentimento, ma con tutto ciò questo brigante si
permette d'essere, non dirò ateo, ma certo poco credente, e ciò con una
ostinazione ed un calma da bastonarlo. Io ho un bel parlargli delle meraviglie
del cielo, della terra, del mare, ecc. ecc. Mi ride in faccia e mi gela in mezzo
del mio entusiasmo tutto divino col dirmi: siete matti! e sfortunatamente lo
dice in buona fede»..
Ma, se si analizza con serenità e senza pregiudizi l’esistenza di questi due
artisti, si trova che non erano affatto come abitualmente vengono descritti.
Sotto un’apparenza esteriore, usata forse anche come difesa dalla propria
privacy, nascondevano uno spirito ricco proprio di quei valori che esaltavano
nelle loro opere.
In genere, nella vita delle persone contano molto le radici. Cioè, “la qualità”
delle esperienze che fanno all’inizio della loro esistenza. I valori e i
principi che vengono assimilati negli anni dell’adolescenza e della prima
giovinezza, difficilmente vanno perduti.
Richard Wagner apparteneva a una famiglia di media cultura. Ultimo di otto
fratelli, non conobbe il padre che morì lo stesso anno della sua nascita. Fu
allevato dalla madre, che aveva ricevuto un’ottima educazione in un importante
collegio di Lipsia. Rimasta vedova ancora in giovane età, si risposò e Richard,
a sei anni, venne mandato in pensione da un pastore protestante, di nome Wetzel,
che abitava in campagna, a Dresda. Era un uomo colto, che trasmise al piccolo
Richard solidi valori religiosi e anche un grande amore per la storia e per la
mitologia.
Nel 1827, quando aveva 14 anni, Richard Wagner fece un’esperienza che segnò
profondamente la sua vita. Ricevette la Prima Comunione. E fu sconvolto da quel
rito. Non solo per il suo intrinseco significato religioso, ma per tutto un
insieme di circostanze che impressionarono enormemente la fantasia e la
sensibilità del futuro artista. La penombra della chiesa, gli odori della cera e
dell’incenso, la varie fasi della cerimonia, il simbolismo in esse contenuto, il
suono dell’organo, i canti corali della gente, tutto questo insieme provocò in
lui uno stato di esaltazione mistica profondissimo, che lo tenne in agitazione
per giorni, e che non dimenticò per il resto della vita. Quell’esperienza
significava per il ragazzo la scoperta di un mondo invisibile, inspiegabile,
irrazionale anche, ma estremamente affascinante, che rimase nel Wagner adulto un
punto di riferimento assoluto.
Qualche
anno dopo, Wagner andò a studiare in una celebre istituzione di Lipsia, la
Thomasschule, Scuola di San Tommaso, fondata dai Padri Agostiniani nel 1212 e
che, dal 1723 al 1750 era stata diretta Johann Sebastian Bach. Cento anni dopo,
all’arrivo del giovane Wagner, il direttore e principale insegnante di musica
della Thomasschule era il maestro Christian Theodor Weinlig, uomo di forti
principi religiosi, che aveva in Bach il suo mito, e che aveva studiato musica a
Bologna, sotto la guida dell’abate Stanislao Mattei, a sua volta allievo del
celeberrimo Padre Giovanni Battista Martini.
Wagner aveva 18 anni. Aveva conclusi gli studi secondari, e voleva dedicarsi
soprattutto alla musica. Ma non era affidabile. La sua vita privata era
disordinata. Aveva la passione del gioco, si ubriacava, trascorreva le notti nei
bagordi.
Tutto questo era inaccettabile per il severo maestro Weinlig, che, dopo pochi
mesi, indignato, decise di cacciare Wagner dall’Istituto. Ma dentro il cuore di
Wagner “dissipato”, viveva ancora la fiamma dell’esperienza mistica della Prima
Comunione con le emozioni che aveva provocato, e fu quel ricordo a salvarlo. Si
rese conto della propria vita dissipata. Si pentì, andò dal maestro Weinlig a
chiedere perdono promettendo di cambiar condotta e di studiare seriamente. Il
maestro Weinlig sospese il provvedimento di espulsione. Wagner mantenne le
promesse e divenne uno dei migliori allievi, il prediletto di Weinlig e iniziò
lì la sua grande e vera carriera di musicista.
La struttura interiore di Wagner era quindi solida e ancorata a quelle
esperienze spirituali di tipo mistico che aveva fatto da ragazzo. Esperienze che
furono sempre presenti nella sua attività di compositore.
Le tematiche di fondo che si trovano nelle sue opere, sia pure espresse
attraverso un sincretismo mitologico a volte esasperato, richiamano i principi
fondamentali del “sacro”, del “mistero”, del “divino”, il “tema della
redenzione”, “dell’amore che salva attraverso il sacrificio”, le figure di Gesù
e di Maria, spesso citate, il tema del Graal .
Tutta
l’opera di Wagner è un rito, teso alla realizzazione di uno spettacolo in cui la
musica non deve essere più importante della religione, dell’arte, della
filosofia, della vita. E queste tematiche sono ribadite ed esaltate soprattutto
nel suo ultimo capolavoro, il Parsifal, suo testamento, dramma mistico per
eccellenza, carico di esplicite e forti allusioni religiose, contrapposte allo
sviluppo tecnologico della sua epoca positivistica. Per questo fu attaccato da
alcuni intellettuali del suo tempo, come Nietzsche che accusò Wagner di essersi
“accasciato ai piedi della croce”.
La parabola artistica di Giuseppe Verdi è tutta diversa, ma porta alle stesse
conclusioni. Verdi apparteneva al popolo più umile, quello dei contadini. La
passione per la musica era in lui istintiva, e si sviluppò da sola. Il Verdi
bambino iniziò a suonare su una vecchia spinetta, apprese i primi rudimenti
della musica dal parroco del paese, che gli permetteva di strimpellare l’organo.
E la sua formazione ideologica e religiosa, ricevuta in quell’ambiente povero ma
sano, fu assolutamente solida.
Come musicista, Verdi fu “allievo” del popolo della sua terra. Era nato in una
piccola frazione di Busseto, in provincia di Parma. La frazione si chiamava e si
chiama “Le Roncole”: poche case, la chiesa e il cimitero. Un centinaio di
abitanti, tutti contadini, ma con un grande amore per la musica, quella
semplice, tradizionale.
Verdi nacque con un immenso amore per quella musica, che si sviluppò
spontaneamente e crebbe alimentato da ciò che vedeva e sentiva dalla sua gente.
Quindi, niente alta istruzione, niente scuole specializzate, niente letture
particolari, niente frequentazioni di artisti celebri. Solo istinto, doti
naturali, che si facevano strada da sole.
A 19 anni, Verdi andò a Milano per sostenere un esame che gli avrebbe permesso
di entrare al Conservatorio. Ma venne bocciato. Tutte le strade tradizionali che
portano un giovane ad apprendere le tecniche di un’arte per la quale si sentiva
portato, furono negate a Verdi. E quando, per una serie di fortunate
circostanze, potè comporre un’opera per un teatro importante, la Scala di
Milano, il suo genio naturale esplose con il fragore di una bomba. Ma subito il
destino avverso si accanì contro di lui. Mentre stava componendo la seconda
opera che il Teatro alla Scala gli aveva commissionato, fu colpito da una serie
di tremende disgrazie: nello spazio di un breve tempo, gli morirono, uno dopo
l’altro, i due figli piccoli e poi la giovane moglie. Voleva morire anche lui.
Per due anni visse come un barbone disperato. Poi, di nuovo la fortuna, la
composizione di quel “Nabucco”, opera immortale che ancora viene eseguita nei
teatri di tutto il mondo. Ed iniziò la grande, immensa carriera.
Giuseppe
Verdi è diventato il genio che tutti lodano e ammirano. Le sue opere, a
differenza di quella di Wagner, si ispirano alla cronaca, alle vicende storiche,
alla vita quotidiana. Niente ideologie, studi mitologici, simbolismi, leggende.
E niente tematiche religiose esplicite. Eppure, i personaggi delle sue opere
sono tutti guidati da un senso religioso pratico di grande potenza.
E in certe circostanze della sua vita, Verdi affrontò direttamente anche la
musica sacra. Lo fece nel 1874 con la “Messa di Requiem”, per ricordare la morte
di un uomo che egli ammirava moltissimo: Alessandro Manzoni, grande scrittore e
grande cristiano. Il “Requiem” è un’opera che viene definita “un vero trattato
teologico”. Permise a Verdi di riflettere sui problemi di fede, e di affermare
concretamente ed esplicitamente le proprie profonde convinzioni religiose. Cosa
che fece anche in altre importanti opere di musica sacra: lo “Stabat Mater”,
composto nel 1897, quattro anni prima della morte. E in particolare il “Te Deum”,
inno sacro monumentale, il suo addio alla vita, un susseguirsi di situazioni,
come egli stesso scrisse, esultanza, contemplazione del Cristo incarnato,
invocazione della sua misericordia e, infine, quel grido “In te, Domine,
speravi”, affidato a una sola voce di soprano alla quale si unisce poi tutto il
coro in un crescendo strapotente: “una richiesta dello stesso Verdi di avere
speranza e luce nell’ultimo tratto della sua vita”, come disse Benedetto XVI
dopo aver ascoltato l’esecuzione di questo “Te Deum” nell’Aula Paolo VI, in
Vaticano, nel maggio dello scorso anno, diretto da Riccardo Muti. Verdi era così
legato a quel “Te Deum” da lasciare scritto, nelle sue disposizioni
testamentarie, che la partitura manoscritta fosse posta nel feretro sotto il suo
capo. Era forse il suo modo di dire “grazie” a Dio, per tutto quello che da Dio
egli aveva ricevuto.
<<
E’ quasi impossibile pensare che un vero grande musicista sia ateo>>, mi disse
un giorno Cesare Augusto Tallone, mitico liutaio, amico di D’Annuncio,
Toscanini, Benedetti Michelangeli, inventore di un pianoforte che porta il suo
nome e che è il primo pianoforte italiano gran coda da concerto. Avevamo
ascoltato insieme un giovane pianista che il quel momento godeva di grandissima
fama e che era molto amico di Tallone. Al termine del concerto, mi sembrava che
il vecchio Tallone fosse perplesso. . <<Non le piace?>>, chiesi. <<E’ un grande
tecnico>>, rispose deciso << ma non sarà mai un grande artista>>. <<Perché?>>,
domandai meravigliato. <<Perché non crede in Dio>>, sentenziò.
Giudicai quella frase eccessiva. Ma, riflettendo, in seguito, capii quale senso
voleva dare Tallone a quella sua affermazione. La fede è una enorme apertura
verso un mondo che sfugge alla fredda razionalità. Credere in Dio, comporta
avere, della vita e del creato, una visione senza confini, senza barriere. <<E’
come avere una finestra aperta sull’infinito>>, mi disse Tallone. << L’ateo
materialista è limitato, ha confini. La sua creatività è prigioniera dello
spazio e del tempo. Non decolla verso l’infinito>>.
Dopo un breve silenzio, il vecchio Tallone, quasi a voler spiegare meglio il suo
concetto, aggiunse enigmatico: <<Johan Sebastian Bach, il più grande genio
musicale della storia, iniziava la scrittura delle proprie pagine musicali con
due J. J., che rappresentavano una sua semplice e spontanea preghiera: “Jesus
Juva” (Gesù aiutami). Tutte le partiture di Joseph Haydn, altro gigante della
musica, portano nell’intestazione le parole “In nomine Domini” (nel nome del
Signore), oppure “Soli Deo gloria”, (Solo per la gloria di Dio) e alla fine
scriveva: “Laus Deo” (Sia lode a Dio) . Nella sua biografia, Charly Chaplin
racconta di aver invitato una sera a casa sua per una cena alcuni amici: il
pianista e compositore russo Sergei Vasilievich Rachmaninov , il direttore
d’orchestra John Barbirolli, il pianista russo americano Vladirmir Horowitz, con
sua moglie Wanda Toscanini. Parlando, qualcuno portò il discorso sulla
religione. Chaplin disse di non essere credente. Rachmaninov, meravigliato,
replicò: “Ma come: può esservi forse arte senza religione?”>>.
Renzo Allegri |