| |
Quante lacrime e stecche per
diventare Domingo
16 Luglio 2009
Mentre l’Arena di Verona dedica
una serata di gala al grande tenore spagnolo per
ricordare che nel luglio di 40 anni fa fece il suo
debutto in quel meraviglioso anfiteatro, ecco la vera
storia del festeggiato.
Di Renzo Allegri
|
|
Clicca sulle foto per
ingrandire
|
|
|
Placido
Domingo con lo spartito di
“Madama Butterfly”, opera di
Puccini che ha tante volte
interpretato e anche
diretto. |
|
. Placido
Domingo con Simonetta
Puccini, nipote del grande
compositore e sua unica
discendente. |
|
Placido
Domingo in veste di
direttore d’orchestra
durante una prova. Come
aveva sempre sognato, oltre
che interprete delle opere
in palcoscenico, lo è anche
dal podio. |
|
|
|
|
|
|
|
|
|
|
Domingo
con i suoi due figli
piccoli, all’Autosafari del
Garda. Le immagini risalgono
al 1977. Il tenore si
trovava a Verona per la
stagione lirica e amava
trascorrere il tempo libero
con i figli tra il verde e
gli animali selvatici,
|
|
Placido
Domingo, sempre nel 1977,
all’Autosafari del Garda,
posa per una foto ricordo
con il direttore dell’Autosafari,
Paolo Preuss e con il
sovrintendente dell’Arena di
Verona Carlo Alberto
Cappelli e sua moglie
Vittoria. |
|
Domingo
con i suoi due figli
piccoli, all’Autosafari del
Garda. Le immagini risalgono
al 1977. Il tenore si
trovava a Verona per la
stagione lirica e amava
trascorrere il tempo libero
con i figli tra il verde e
gli animali selvatici,
|
|
|
|
|
|
24 luglio: “Domingo day” all’Arena di Verona.
Il più grande teatro del mondo all’aperto celebra il
mitico tenore spagnolo con una serata di gala
ricordando i 40 anni del suo debutto in
quell’anfiteatro.
Placido Domingo aveva allora 28 anni. Si presentò
interpretando il ruolo di Calaf in una “Turandot”
indimenticabile che aveva come protagonista
femminile Birgit Nilsson. Due settimane dopo, era
protagonista, sempre in Arena, del “Don Carlo” di
Verdi. Un debutto, quindi, da mattatore, nel corso
di una stagione lirica che radunava artisti
eccezionali: Piero Cappuccilli, Gianni Raimondi,
Carlo Bergonzi, Bonaldo Giaiotti, Fiorenza Cossotto,
Monteserrat Caballè, Gabriella Tucci, Renato
Capecchi eccetera. Padrini straordinari per la
carriera di un cantante che, con le sue doti
artistiche, avrebbe incantato il mondo e che, 40
anni dopo, è ancora sulla breccia da impareggiabile
protagonista.
Oggi, Placido Domingo è per tutti il re del
melodramma. Un mito. Una leggenda. Non solo per la
voce, per la tecnica che gli permette di affrontare
gli scogli più insidiosi delle opere, ma anche
perché è, come è sempre stato, un grande e vero
attore, cioè un interprete che delinea i personaggi
con una introspezione psicologica raffinata, un
musicista che conosce tutti i segreti delle armonie
dell’espressione vocale, e che può permettersi di
passare dal palcoscenico al podio per dirigere i
capolavori che tante volte ha interpretato. Mai
nella storia della lirica c’è stato un artista così
completo ad altissimo livello. “Un fenomeno”, viene
definito. Ma pochi sanno quanta fatica e quanto
lavoro stanno alla base di tanto successo.
Domingo è un uomo cordiale, estroverso, sorridente,
ma anche molto riservato per ciò che riguarda la sua
vita privata. Raramente parla di se stesso. Nelle
biografie ufficiali sono registrati i successi della
sua carriera, ma silenzio sulle difficoltà
incontrate, sui sacrifici affrontati. Un giorno di
tanti anni fa, in un momento particolare della sua
vita artistica, il tenore si lasciò andare alle
confidenze. Mi fece un racconto dettagliato degli
inizi della sua carriera, racconto che, a quanto mi
risulta, non fece mai più. Un documento
straordinario, ricco di particolari e dettagli
inediti, dal quale balza in evidenza la vera
grandezza di un artista che ha sudato sangue per
raggiungere le mete che si era proposto, e di un
uomo che ha saputo lottare con tenacia, passione e
costanza ammirevoli e rare.
Era il dicembre 1976. Domingo aveva inaugurato la
stagione lirica del Teatro alla Scala di Milano con
“Otello”, avendo accanto Mirella Freni e con la
direzione di Carlos Kleiber. Successo trionfale.
Anche perché mai si era visto un tenore così giovane
delineare un “Otello” tanto nuovo e convincente.
Alla prima era presente anche Mario Del Monaco,
“Otello storico”. Lodò il giovane collega, ma disse
che imbrogliava sull’età. <<Non ha 35 anni come dice
di avere>>, dichiarò ai giornali. <<Ne ha almeno
dieci di più perché è impossibile cantare “Otello”
senza una lunga maturazione vocale>>.
I giornali riportarono le dichiarazioni di Del
Monaco con grande evidenza. Nacquero immediate
polemiche sulla vera età del tenore spagnolo.
Domingo era amareggiato. E quando andai a trovarlo,
mostrandomi il passaporto e indicandomi la data di
nascita, 21 gennaio 1941, mi disse: <<E’ vero, sono
giovane ma pochi sanno che canto da diciotto anni e
che il prossimo mese festeggerò la mia 1200° recita.
Ci sono tenori che non arrivano a questo numero di
recite neanche in tutta la vita. Per questo, anche
se ho soltanto 35 anni, mi sento un veterano della
lirica e preparato anche per opere difficoltose come
il capolavoro di Verdi>>.
Eravamo all’Hotel Principe di Savoia di Milano.
Domingo sembrava più un divo del cinema che un
tenore. Alto, atletico, con grandi occhi neri e un
volto dolce da nobile spagnolo, attirava
l’attenzione di tutti. Aveva una popolarità
incredibile. La gente lo riconosceva. Davanti
all’albergo sostavano gruppetti di fans pronti ad
assalirlo per avere un autografo. Anche ragazzine,
con i libri di scuola sotto il braccio. <<Sembrano
tornati i tempi della Callas>>, mi disse commosso il
portiere dell’albergo, che era un melomane.
Dentro l’albergo, Domingo era corteggiato da
impresari, discografici, direttori di teatri. Era
già allora il tenore più conteso, il cantante più
pagato. Ma sembrava estraneo agli affari, al
successo. Parlava con una semplicità disarmante.
Arrossiva ai complimenti. Per rendere la nostra
intervista un po’ piccante gli ricordavo le
polemiche scatenate dalle dichiarazioni di Mario Del
Monaco, ma non riuscii a cavargli una sola battuta
cattiva contro nessuno. In seguito ho incontrato
Placido Domingo tante altre volte, ma non l’ho mai
sentito parlare male di un collega.
Cenammo insieme. E quando l’atmosfera si era
riscaldata, grazie anche un buon vino, Domingo
cominciò a raccontare. Gli avevo chiesto della sua
infanzia, degli inizi della carriera. I ricordi
sgorgavano come una sorgente impetuosa. Ricordi
caldi, vivi, commossi. E credo di aver registrato,
quella sera, una confessione che Domingo forse non
ha mai più fatto. Ecco le parti più importanti di
quella lunga intervista.
<<Cosa prova vedendo che tutti la riconoscono, la
salutano, le chiedono l’autografo?>>, chiesi a
Domingo.
<<Amo il pubblico, mi piace essere riconosciuto,
trovare amici>>, rispose. <<E’ tanto bello volersi
bene, aiutarsi. Io ora sono fortunato. Ma ho passato
periodi difficili, tremendi. Se non avessi avuto
l'aiuto di persone che mi volevano bene, non li
avrei mai superati. Quei momenti "neri" mi hanno
insegnato a misurare la realtà e a credere che gli
uomini non sono cattivi come a volte sembrano>>.
<<Ha sempre sognato di diventare un grande cantante
lirico?>>.
<<No. La musica è sempre stata una grande passione
per me fin dall’infanzia, ma ho scoperto di avere
una bella voce solo a 17 anni. Sono nato in Spagna e
sono figlio di cantanti. Mio padre e mia madre sono
stati due popolari artisti della "zurzuela", una
forma di operetta molto in voga nei Paesi di lingua
spagnola. Quando ero piccolo, la mia famiglia è
emigrata in Messico e sono cresciuto là. Ho
respirato musica, e soprattutto canto, fin dalla
nascita. I miei genitori sognavano che diventassi un
pianista.
<<Cominciai a studiare il pianoforte da ragazzino, e
riuscivo bene. Fin da allora avevo un carattere
estroverso, dinamico. Mi entusiasmavo per tutto e mi
piaceva fare tutto. Suonavo anche la chitarra, la
fisarmonica, cantavo canzonette, canzoni folk, arie
d'opera. Ma la passione predominante negli anni
dell’adolescenza e prima giovinezza fu lo sport.
Adoravo il calcio, e le corride. Avevo un bellissimo
costume da torero e con gli amici andavo spesso ad
allenarmi con i tori piccoli. Mio padre e mia madre
interpretavano un'operetta imperniata sulla vita dei
toreri, ed io ero felice di poter partecipare a
quelle recite con il mio lucente costume da torero.
Poi un giorno, un torello focoso mi diede una
cornata facendomi ruzzolare come una palla da
biliardo. Provai una grande paura e smisi di
frequentare le arene.
« La passione per il calcio durò otto anni. Giocavo
da portiere ed ero bravo. Dicevano che sarei
diventato un campione e credo che sarei riuscito se
non fosse intervenuta la musica. Avevamo un
professore di scuola che era anche un magnifico
allenatore. Aveva preparato la squadra della nostra
classe in maniera eccellente. Ci aveva insegnato ad
essere uniti. Il nostro motto era: "Tutti per uno ed
uno per tutti". Per otto anni abbiamo studiato
insieme, sempre con lo stesso professore, e fummo
sempre promossi tutti con lo stesso voto. Se uno
restava indietro in una materia, facevamo a gara per
aiutarlo in modo che diventasse bravo come gli
altri. Eravamo decisi a ripetere la classe, se uno
di noi fosse stato bocciato, ma fortunatamente non è
accaduto.
<<La squadra di calcio della nostra classe era la
migliore della scuola. Alcuni miei compagni sono
diventati giocatori professionisti. Ai campionati
mondiali di Città del Messico, tre miei compagni di
scuola facevano parte della squadra nazionale
messicana e uno era quel Gonzales che ha segnato un
gol all'Italia.
<<Contemporaneamente alle scuole normali,
frequentavo il Conservatorio. I due edifici erano
vicini, ma io ero quasi sempre al Conservatorio.
Verso i quindici anni cominciai a scoprire il
fascino del canto. Mi piaceva ascoltare, e
trascorrevo ore ed ore passando da una stanza
all'altra dove si tenevano lezioni di canto. Mi
piaceva tutto: musica da camera, pezzi d'opera, arie
d'operette; mi piaceva la voce del soprano, quella
del tenore, del basso, del baritono. Poi
canticchiavo quello che avevo ascoltato e fu così
che qualcuno cominciò ad accorgersi che avevo una
bella voce.
<<Non ho mai avuto maestri di canto. L'unico che mi
ha dato delle lezioni, o meglio dei consigli, fu un
certo Carlo Morelli, cileno, di lontana origine
italiana. Il suo vero nome era Carlos Morales
Zanelli, ma aveva assunto un nome d'arte per
distinguersi dal fratello, Renato Zanelli, che fu un
grande tenore e uno dei più famosi interpreti di
Otello. Carlo Morelli non mi insegnò a cantare, ma a
recitare. Diceva che il segreto per diventare un
grande artista lirico stava soprattutto nel saper
recitare, nel saper declamare in modo da dare il
giusto risalto alle parole. Io condivido in pieno
quella teoria e per ricordarmi sempre gli
insegnamenti di Carlo Morelli, porto all'anulare,
insieme alla fede matrimoniale, un anello che egli
mi ha dato.
<<Carlo Morelli riuscì a infondermi tale entusiasmo
per il teatro che ad un certo momento non potevo più
contenere la mia passione e dovetti mettermi a
cantare. Non mi interessava cosa fare, era
sufficiente poter salire su un palcoscenico, su una
ribalta, avere un pubblico a cui comunicare. E così
cominciò la mia vita artistica.
<<Avevo ancora le idee molto confuse e accettavo le
offerte più disparate: cantavo nelle operette con i
miei genitori, suonavo il pianoforte in un night.
Dagli Stati Uniti venne una compagnia per recitare
“My Fair Lady” e mi affidarono una parte. Poi cantai
in altre commedie musicali. In Messico erano
scomparsi i due grandi interpreti della musica
folcloristica messicana, la musica "rancera", e si
cercavano dei giovani. Alcuni organizzatori misero
gli occhi su di me e volevano farmi diventare un
esperto di quel genere. Mi fecero anche un provino
per un film. Fu il regista di “My Fair Lady” che mi
disse: "Tu devi cantare l'opera lirica, perché hai
una voce stupenda". Incoraggiato da quel complimento
cominciai a studiare opere liriche. Credevo di avere
una voce da baritono, imparai diverse arie famose e
mi presentai per una audizione al teatro di Città
del Messico. Cantai il "Prologo" dei “Pagliacci” e
"Nemico della patria" dall'”Andrea Chenier”. I miei
esaminatori restarono perplessi. "Mi cacciano via",
pensai. Invece dissero: "Hai una bella voce, ma non
sei un baritono: sei un tenore". Mi misero davanti
uno spartito e mi fecero cantare alcune arie da
tenore. Arrivò un la naturale e feci una stecca
terribile. "Non spaventarti", mi disse un
esaminatore. "Sbagliando si impara". Mi
scritturarono subito affidandomi la parte di Matteo
Borsa. in “Rigoletto”.
<< Debuttai così in un ruolo insignificante, ma ero
contentissimo. Per due anni, cioè dal 1959 al 1961,
continuai a interpretare ruoli secondari, senza mai
avere la possibilità di emergere. Nel 1961 cominciai
ad avere qualche parte di protagonista. A Dallas
interpretai “Lucia di Lammermoor”, accanto alla
leggendaria Lily Pons, che con quell'opera dava
l'addio al teatro. Il 19 novembre 1962, sempre in
America, interpretai la parte di Cassio
nell'”Otello”, accanto a Del Monaco.
<<Nel frattempo mi ero anche formato una famiglia :
avevo conosciuto Marta Ornelas, soprano lirico
messicano, ci eravamo sposati ed avevamo un figlio.
Bisognava lavorare per mandare avanti la baracca.
Era necessario andare all'estero per farci
conoscere, per allargare il giro degli impegni
professionali. Un impresario ci offrì un contratto
per sei mesi a Tel Aviv. Il cachet era miserabile:
330 dollari al mese in due e bisognava cantare venti
recite, dieci a testa ogni mese. Ma era lavoro
sicuro, e partimmo. Cominciò il periodo più duro,
più brutto ma anche più importante della mia
carriera.
<<Tel Aviv è una città di intenditori e amanti della
musica. Io ero un cantante autodidatta, non avevo
alcuna scuola alle spalle. A Tel Aviv i difetti e le
deficienze della mia voce cominciarono a venir fuori
tutti; e ricevevo molte critiche.
<<La prima ad accorgersi che la mia voce non andava
fu mia moglie. “Quando canti non ti sento”, mi disse
una sera. “Ci deve essere qualche cosa di sbagliato
nell'impostazione, nella emissione del fiato”.
<<In quella città non conoscevamo nessuno a cui
chiedere consiglio o aiuto. Non potevamo rivolgerci
alla direzione del teatro che ci aveva ingaggiati.
Decidemmo di fare da soli. Tutti i giorni, quando il
teatro era vuoto, andavamo in palcoscenico. Mia
moglie si metteva al pianoforte, io cominciavo a
fare vocalizzi, a cantare romanze. Scoprimmo che
l'origine di tutte le deficienze della mia voce
stava nel modo in cui cantavo. Io cantavo sul fiato,
consumando un sacco di energie, senza avere buoni
risultati. Bisognava cambiare tecnica, imparare ad
appoggiare la voce, usare il diaframma. Sotto la
guida di mia moglie cominciai ad allenarmi con
questo sistema.
<<Studiavamo ore ed ore, ogni giorno. Dovevamo
fermarci a Tel Aviv sei mesi e ci restammo quasi tre
anni. La nostra vita era miserrima. I soldi ci
bastavano appena per sfamarci. Non potemmo mai
permetterci uno svago, un capriccio. Quando cantava
mia moglie, io restavo in casa a far da mangiare, a
lavare i piatti, a pulire i pavimenti, a spolverare
i mobili. Quando cantavo io, stava in casa mia
moglie. I giorni in cui dovevamo cantare insieme,
andavamo a cena fuori, non però al ristorante, non
potevamo permettercelo, ma in qualche piccola
trattoria. Tutto il tempo libero lo trascorrevamo a
studiare, a migliorare la mia voce. Sono state
quelle centinaia di ore di studio e di esercizio,
fatte in teatro con mia moglie, a costruire il mio
avvenire. Da una esperienza come quella si esce o
distrutti o con una voce a prova di bomba. In due
anni e mezzo avevo fatto 260 recite, più centinaia
di ore di vocalizzi e allenamenti. La voce aveva
resistito, anzi si era formata : quindi ero pronto
per il gran de lancio.
<<Lasciammo Tel Aviv nel 1965, con due contratti per
gli Stati Uniti. Debuttai al "City Opera" di New
York. Ebbi un successo strepitoso. Il giorno dopo
ricevetti decine di offerte di lavoro e le accettai
tutte per paura di restare senza. Poi dovetti
lavorare come un negro per mantenere gli impegni.
Appena trovai una settimana libera, venni in Europa
a fare delle audizioni.
<<Il mio obiettivo erano i grandi teatri:
Metropolitan negli Stati Uniti e la Scala in Italia.
Volevo debuttare in questi templi della lirica prima
di compiere trent'anni. In Europa fui ingaggiato per
il Teatro di Amburgo, per l'Opera di Vienna e quella
di Berlino, che sono ribalte importantissime.
Infatti, subito dopo ricevetti offerte per San
Francisco, Chicago, e poi, finalmente, nel 1968 fui
chiamato al Metropolitan. Nel 1969 debuttai
all'Arena di Verona e alla Scala di Milano. Da
allora ho cantato in tutto il mondo>>.
Ricordando il passato, che allora non era poi tanto
lontano, Domingo era commosso. Lo si vedeva dai suoi
occhi lucidi. Parlammo a lungo. Di progetti, di
sogni, di speranze. Ma il discorso tornava sempre
all’esperienza di Tel Aviv. <<Ora va tutto bene>>,
mi disse ancora. <<Ho fatto fortuna. Il lavoro non
manca e vengo pagato bene, ma la vita di sacrifici
continua come prima. La mia condotta professionale è
rimasta la stessa che tenevo a Tel Aviv quando
prendevo 160 dollari al mese. Canto con lo stesso
entusiasmo e lo stesso impegno. Mi preparo alle
opere con la stessa scrupolosità e meticolosità. Non
ho mai accettato un contratto solo perché il cachet
era migliore; non ho mai fatto una questione di
soldi. Ogni sera, quando entro in scena, mi dico:
"Placido, questa potrebbe essere l'ultima recita
della tua vita". Io spero di vivere fino a
cent'anni, e di cantare almeno ancora per quindici,
ma penso sempre che quella potrebbe essere l'ultima
recita, e ce la metto tutta, perché sia perfetta, la
migliore, quella che il pubblico deve ricordare
sempre>>.
E anche quella sera mi parlò della sua segreta
passione per la direzione d’orchestra.
<<Io sono direttore d'orchestra>>, mi disse <<e
voglio chiudere la mia carriera artistica come
direttore d’orchestra. La mia ambizione non è quella
di diventare famoso come direttore d’orchestra:
voglio avere un teatro mio e lavorare con dei
giovani artisti per preparare le opere secondo certi
miei criteri. Ogni anno dirigo tre, quattro opere,
per tenermi in allenamento. Ho già diretto quasi
tutto Verdi, alcune opere di Puccini e recentemente
il Barbiere di Rossini. Il sogno ultimo della mia
vita è creare un centro musicale in una parte del
mondo, forse in Spagna, o in altra nazione, e
formare i giovani. Vorrei avere una trentina di
giovani cantanti, scelti in tutto il mondo, e
prepararli come si deve. Sono convinto che dopo un
anno trascorso con me diventerebbero le colonne dei
migliori teatri>>.
Avevo saputo che era molto generoso con i suoi
colleghi meno fortunati. <<A differenza di tanti
suoi colleghi, lei aiuta molto i giovani artisti>>,
gli dissi. <<Perché lo fa?».
<<Perché io so cosa significa aver voglia di
cantare, di sfondare e non riuscire a trovare la
strada>>, rispose. <<Non è esatto dire che io aiuti
tutti. Aiuto solo quelli che hanno le capacità per
riuscire. Dare speranze inutili a uno che non
riuscirà mai, è immorale e ingiusto. Chi, invece, è
dotato ed ha buona volontà deve essere aiutato. Non
c'è gioia migliore nella vita di poter dire: "Ho
aiutato quella persona a togliersi dalle
difficoltà">>.
Gli chiesi ancora:: <<Lei è ancora giovane. Ma quali
momenti della sua vita ricorda come i più belli?>>.
<<I due anni e mezzo trascorsi a Tel Aviv>>, rispose
deciso. <<E’ vero, sono stati tremendi, grigi,
difficoltosissimi; ma in quegli anni di miseria ho
imparato a conoscere e ad amare mia moglie. Io e
Marta siamo una coppia molto affiatata. Quando ci
siamo conosciuti eravamo ragazzi e credevamo che il
nostro amore fosse il più bello del mondo. Ma solo a
Tel Aviv, quando eravamo soli e poveri, quando certe
sere per le difficoltà ci trovavamo a piangere
insieme abbiamo scoperto il vero amore. E' stato
quell'amore a renderci forti e a farmi superare
tutte le difficoltà. Io ripeto spesso a tutti: "Se
sono diventato Placido Domingo, lo devo soprattutto
a Marta" >>
di Renzo Allegri
|
|
|
| |
| |